Il 28 giugno a Venezia c’è stato il Venezia Pride, una manifestazione organizzata dalle associazioni LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali) del Triveneto (Veneto, Trentino e Friuli). Per le associazioni, per le persone che hanno partecipato, per la città non c’è dubbio sia stata una giornata piena di gioia e allegria, e per chi l’ha organizzata (come chi scrive) è stata una giornata indubbiamente appagante e ricca di soddisfazione.
Questo per quanto concerne il Pride di Venezia in sé, ma andiamo alla sostanza; perché abbiamo deciso di fare una manifestazione del genere? Perché il 28 giugno di quest’anno hanno manifestato Milano, Torino, Venezia, Bologna, Perugia, Lecce, Napoli, Palermo, Catania e Alghero, senza calcolare Roma e Napoli in altre date? Mezzo paese è sceso in piazza per l’Onda Pride con numeri da paura; Venezia è arrivata, con tutte le sue difficoltà logistiche, politiche e organizzative a 4.000, ma Bologna, Roma, Milano, Torino, hanno raggiunto cifre impressionanti.
Il motivo per cui in Italia i Pride di fatto sono delle manifestazioni politiche e come tali vengono vissute sia da chi le organizza si da chi vi partecipa, è che nei fatti nel nostro paese la questione “politica” dei diritti per le persone LGBT è ancora dolorosamente aperta. Anzi, si può dire di più, l’Italia vive una stagione in cui la stessa dignità civile della comunità LGBT e delle persone che ne fanno parte viene messa in discussione.
Mettiamo dei punti fermi; il primo è che l’omofobia non è nelle intenzioni di chi parla, ma nell’effetto che produce. In questa accezione rientrano i discorsi spesso ripetuti da politici o personaggi famosi (o famigerati) per le loro opinioni notoriamente omofobiche, ma che dichiarano di non avere nulla contro i gay in particolare, anzi hanno molti amici gay. Sorvolando sul fatto che pare strano che nessuno di loro abbia anche qualche amica lesbica, sarei proprio curioso di conoscere l’amico gay di Gianluca Buonanno o di Eugenia Maria Roccella. In realtà una retorica continua, che insiste su stereotipi e pregiudizi, che bolla come “altro da noi” il nostro prossimo non fa che rendere via via più giustificabile la discriminazione, l’esclusione e infine la violenza, fisica e verbale. Pertanto qualcosa contro “i gay” ce l’hanno anche se dicono il contrario.
Passando dalle vuote parole ai concreti fatti; un valido indicatore di “quanto bene se la passano” i cittadini LGBT nel nostro paese la dà la visibilità. Con visibilità si intende quanto una persona fa sapere della propria identità di genere o del proprio orientamento sessuale a chi la circonda. Se una persona percepisce attorno a sé un clima inclusivo, non si nasconderà, sembra logico.
Infatti l’Italia è agli ultimi posti; vediamo che a scuola sono visibili meno della metà degli studenti (fra i 60 e il 70 % non sono visibili, a seconda del sesso) e da grandi, al lavoro, sono totalmente visibili meno del 30% dei dipendenti LGBT. Questo ci pone al di sotto della media europea, che precisiamolo non vive solo delle eccellenze della Germania e della Svezia ma anche dei numeri ugualmente sconfortanti della Polonia.
Facendo un passo indietro, parlando di come percepiscono il clima culturale del paese, l’Italia guadagna la maglia nera rispetto alla media europea (91%, quasi l’unanimità, dei cittadini LGBT italiani percepiscono un clima pesantemente omofobico da parte della classe politica).
Facile immaginare che se i cittadini vedono legittimata una certa retorica politica saranno agevolati nel ripeterla nel quotidiano. Di conseguenza tre persone su quattro, fra gay, lesbiche, bisessuali e transessuali, hanno paura di aggressioni basate su orientamento sessuale e identità di genere e limitano la propria condotta in pubblico.
Diciamo tutto questo volendo pure sorvolare sulla mancanza di diritti di cui (non) gode la comunità. Manca una legge di tutela delle minoranze, la famosa estensione della mancino col DDL Scalfarotto di cui si sono perse le notizie. Manca una legge che riconosca le unioni fra persone dello stesso sesso, con l’abominio per cui ci sono persone che all’estero risultano sposate e con figli a carico e in Italia sono single. Manca un aggiornamento della legge sul riassegnamento anagrafico del genere, che eviti alle persone transessuali l’obbligo medioevale della riassegnazione chirurgica.
I diritti e la dignità civile negati alla comunità LGBT sono molti e molteplici, e varie ne sono le cause. Non vale la scusa dell’intrinseca religiosità del popolo italiano, o dell’influenza della Chiesa Cattolica. Un paese che riesce ad essere laico e tollerante nel valutare l’abuso su minore di un presidente del consiglio in carica può tranquillamente valutare con serenità l’estensione del matrimonio a persone dello stesso sesso. Il problema è complesso e di natura strettamente culturale, di cultura sociale e di cultura politica. Ergo la sua soluzione passa necessariamente attraverso una cultura di valorizzazione delle differenze e di responsabilità politica.
Parliamo ovviamente di una cultura che la classe politica italiana non ha mai imparato in 150 anni di storia repubblicana, con le dovute eccellenze, pertanto pare difficile che la impari d’emblée, checché ne possa promettere Matteo Renzi. Tuttavia la speranza è l’ultima a morire e certamente non si rinuncia alla battaglia.
I Pride a fronte di questa situazione hanno molti significati: per la comunità è quasi un momento catartico, un’affermazione forte di identità e di cittadinanza, nonché un evento rituale fortemente sentito. Per la politica è un momento di valutazione dell’interlocutore, della sua consistenza numerica e del suo peso in termini di visibilità. Per la cittadinanza è, o perlomeno dovrebbe essere, un’occasione per rendersi conto che chi è “diverso” non è lontano, non vive in un “altrove” ma è prossimo, vicino e a volte volendolo conoscere anche un amico.
Per la verifica delle statistiche che ho riportato si può fare riferimento al sito fra.europa.eu
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