Si stanno mettendo in modo diverso le cose per l’Opzione donna in quanto il governo Meloni sembra essere pronto a fare un passo indietro.
Pare che il destino sia quello di modificare quel punto che porta le donne ad andare in pensione prima in base al numero dei figli.
È molto probabile che la decisione che venga presa è quella di ritornare alla norma originale la quale verrà prorogata per tutto il 2023.
Il governo sembra essere intenzionato a fare un passo indietro poiché aggiungere come requisito per un prepensionamento la presenza di più figli è un rischio incostituzionale che si va ad aggiungere anche alla perplessità sulle coperture.
Per il momento però ancora non si è concluso il lavoro sul testo il quale è stato approvato lunedì nel corso del Cdm anche se ancora non è arrivato in Parlamento.
La sua analisi in questo edificio è previsto per l’inizio della prossima settimana.
All’interno della bozza della manovra si era parlato di una novità per Opzione donna la quale veniva prorogata per il 2023 con alcune modifiche.
Le donne che avevano due figli potevano andare in pensione a 58 anni, quelle con un figlio a 59 anni mentre, in tutti gli altri casi, il pensionamento era previsto al raggiungimento dei 60 anni di età.
Era questo ciò che era possibile leggere attraverso un comunicato da parte di Palazzo Chigi.
All’interno della bozza risultava però ancora vuoto lo spazio dedicato a tale manovra. Oggi però finalmente si è riuscito a scoprire il perché di tale situazione.
Sembra infatti che il Ministero del Lavoro sia ancora all’opera per confermare, fino al 31 dicembre del 2023, la stessa norma per Opzione donna che è in essere attualmente.
Il Ministero dell’Economia sta quindi valutando attentamente questa proposta proprio perché risulta essere difficile coprirla al 100%.
Ma la vera questione non è ciò che riguarda le risorse in quanto tale modifica era nata all’inizio per ottenere un risparmio andando a restringere la platea.
Si è poi scoperto che però quest’obiettivo non si riusciva a raggiungere poiché questi risparmi non erano così tanti come si sperava.
Infatti, anche nella versione originaria, Opzione donna costa allo Stato circa 100 milioni di euro.
Il rischio che si correva era riguardo ad alcuni punti della norma i quali potevano diventare penalizzanti.
A rendere ancora più pericolosa la situazione è ciò che hanno sottolineato alcuni costituzionalisti secondo i quali una differenza del genere avrebbe potuto causare la violazione del principio di uguaglianza.
Il PD la definisce come una norma discriminatoria che porta a fare un passo indietro anche se si vanno a rimarcare “le criticità di opzione donna”.
Il MoVimento 5 Stelle a questo riguardo afferma che si tratta di una misura che ha un “deciso sapore di Ventennio che si è infranta di fronte alla Costituzione“.
L’opposizione, cogliendo l’occasione al volo, accusa anche l’esecutivo di un vero e proprio pressapochismo.
La manovra però è finita al centro delle critiche anche per il modo in cui sono state definite le coperture.
All’interno delle tabelle del Dpb, oltre a fare riferimento al reddito, al superbonus e alle pensioni, compaiono anche 16 miliardi di euro di risorse divise tra tagli di spesa chiamate come “altre coperture” ed entrate varie.
Non si fa riferimento nemmeno agli extra profitti, i quali potrebbero portare nelle casse dello Stato circa 6 miliardi di euro.
Il deputato di Azione Italia Viva, Luigi Marattin, commenta come segue tale situazione: “Ho visto tanti Dpb, ma uno in cui ci sono 16 miliardi di coperture sotto la voce ‘altro’, quello no, non l’avevo mai visto”.
Antonio Misiani, esponente del PD, sospetta invece che dietro quelle voci generiche ci siano dei pesanti tagli di spesa e delle tasse inedite che ancora non sono state specificate.
Mario Turco, esponente del MoVimento 5 Stelle, si pone una domanda, ossia in che modo Bruxelles riuscirà a valutare un documento all’interno del quale ci siano delle voci vaghe e inconsistenti. Per il momento la manovra ha sempre meno tempo poiché i giorni passano e resta poco per realizzare un testo definitivo da proporre in Parlamento.
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