Ricorre in questi giorni l’ottavo anniversario della morte di Renato Caponnetto, agricoltore che si ribellò al boss mafioso Aldo Carmelo Navarria.
L’imprenditore agricolo venne rapito, torturato, ucciso e infine dato alle fiamme l’8 aprile del 2015 perché disse chiaramente al boss mafioso che non avrebbe ceduto a ricatti estorsivi. Era un lavoratore onesto, il genere di persona ideale per i loschi affari dei criminali che vedono in questa tipologia di persone un bersaglio facile. Invece Caponnetto non aveva intenzione di cedere i soldi che con il sudore si guadagnava ogni giorno, al boss locale che da tempo cercava di farlo cedere e sottometterlo come aveva fatto con tanti prima di lui.
La morte di Renato Caponnetto
Renato Caponnetto era un imprenditore agricolo che lavorava nella campagne di Paternò, a Catania, e venne ucciso barbaramente dalla mafia locale perché si rifiutò di cedere a ricatti estorsivi. In poche parole gli veniva chiesto regolarmente di pagare un pizzo ma lui non aveva mai ceduto, nemmeno quando alla sua porta si era presentato il boss di Belpasso, Carmelo Aldo Navarria.
Era l’8 aprile quando il contadino venne fatto sparire nel 2015, per decisione dello stesso boss, al quale aveva detto chiaramente che non si sarebbe abbassato alle loro richieste. La storia di Renato è stata raccontata anche dal magistrato Sebastiano Ardita nel suo libro “Al di sopra della legge”, in cui ripercorre l’evoluzione della lotta a Cosa Nostra ricordando diversi sacrifici come quello di Caponnetto e denunciando il potere delle mafie anche dal carcere.
La storia dell’agricoltore è molto triste e parla di un uomo che aveva un’azienda di prodotti agricoli in provincia di Catania. Dopo diverse estorsioni, si era finalmente ribellato ma 5 uomini si presentarono alla sua porta per sequestrarlo. Lo portarono in un casolare isolato, denudandolo e legandogli le mani dietro la schiena. Poi venne torturato e ucciso con una garrota appuntita stretta intorno al collo.
Una morte terribile he serviva a dare l’esempio a chiunque come lui aveva intenzione di ribellarsi alla mafia locale. Il corpo venne bruciato e per molte ore la moglie lo chiamò ma il cellulare suonava a vuoto.
Il mandante era appena uscito dal carcere, dopo una condanna per un reato analogo che gli era costata l’ergastolo. Tuttavia per cavilli legali è riuscito a uscire dopo 26 anni e continuare il suo regno del terrore a Paternò e dintorni. Nel suo mirino c’erano le persone più oneste e quelle che per evitare guai erano disposte a tutti, proprio come Renato o almeno questo è quello che deve aver pensato Navarria, che ora è un pentito ma al tempo era un efferato criminale che davvero non pensava a fermare le morti.
Chi è Carmelo Aldo Navarria
Navarria era di più che un esponente di un clan mafioso senza scrupoli e senza umanità, come lo ha definito Ardita, il nome del boss compare anche nelle cronache recenti. Proprio pochi giorni fa infatti gli investigatori hanno ripreso in mano il caso di Caponnetto per fare luce su alcuni dettagli.
Il metodo di uccisione è il medesimo utilizzato da altri clan mafiosi e poi chiaramente c’è l’usanza di bruciare il cadavere per eliminare ogni segno della violenza e mantenere il più possibile pulita l’immagine di chi invece è coinvolto in prima persona, sia come killer che come mandante.
Scavando a fondo nell’intricata faccenda, è emerso che l’imprenditore agricolo non era così puro come si pensava, infatti in passato aveva assunto personalità mafiose nella propria azienda e un suo parente aveva contratto un debito di cui il garante era proprio Navarria.
Gli arresti arrivarono poco dopo l’omicidio, grazie all’indagine “Araba Fenice” nell’ambito della quale gli agenti analizzarono le intercettazioni ambientali e telefoniche ma anche immagini di videosorveglianza, il tutto insieme a un’intensa attività di pedinamento.
Furono importanti anche le dichiarazioni del pentito Francesco Carmeci, affiliato al clan di Navarria e presente nelle fasi più importanti del delitto. Come dicevamo, il boss all’epoca era appena uscito dal carcere dopo che l’ergastolo per 6 omicidi era stato ridotto a 26 anni di reclusione. Da uomo liberò riprese con quello che gli riusciva meglio: delinquere.
Le prove contro di lui portarono all’arresto lo stesso anno del delitto e allo smantellamento di buona parte della cupola santapaoliana con ben 15 arresti. Manifestò più volte nel 2017 la volontà di intraprendere un percorso di redenzione ma la moglie lo ha fatto sempre desistere. Alla fine la decisione è diventata definitiva e questo ha portato alla caduta di altri nomi del clan Santapaola-Ercolano, uno dei più potenti di Catania.
Difficile leggere di omicidi come quelli di Caponnetto e rimanere lucidi senza essere pervasi da un senso di giustizia, specialmente se pensiamo che quel criminale doveva trovarsi in carcere. Doveroso ricordare Renato e tutti quelli che come lui decidono di allontanare la mafia dalla propria vita pagando con la morte.