Attenzione a parlare male dei superiori. Specialmente sulle chat di lavoro. Due operaie di una piccola azienda del Parmense, infatti, sono state licenziate per essersi scambiate opinioni poco carine nei confronti del campo sulla chat di Whatsapp del lavoro, da cui il datore era escluso. Una chat che, inizialmente, doveva essere dedicata solo agli scambi sui turni, ma che nel tempo si era trasformata in un luogo virtuale dove fare anche due chiacchiere.
Certo, le due operaie di 29 anni non potevano supporre che una collega fosse talmente meschina da stampare le chiacchiere in libertà, portandole da leggere poi proprio al capo che, a gennaio, ha inviato alle due dipendenti – assunte con contratto a tempo indeterminato – una contestazione disciplinare, a cui è seguita pochi giorni dopo la lettera di licenziamento. La cosa non è finita qui, però. Le due dipendenti hanno infatti fatto ricorso in tribunale e ora attendono la prima udienza.
“A maggio abbiamo la prima udienza al Tribunale del lavoro di Parma. Contestiamo la sproporzione tra la sanzione e il comportamento delle dipendenti. Sono stati saltati i criteri di gradualità: in ogni contenzioso si parte sempre dal richiamo verbale, per poi passare al rimprovero scritto, alla multa, alla sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un massimo di tre giorni” dice Silvia Caravà, avvocato del Fai – Cisl che assiste le due 29enni. Che aggiunge: “Di fronte alla condotta del responsabile, che le due operaie giudicavano vessatoria perché minacciava costantemente il licenziamento e denigrava quotidianamente le dipendenti, loro hanno reagito sfogandosi su Whatsapp con i toni colloquiali tipici delle chat sul telefonino”.
La domanda è: si può applicare l’articolo 15 della Costituzione a queste chiacchierate? “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili” dice l’articolo della nostra Carta costituzionale. “E infatti il problema non si porrebbe se lo scambio avvenisse soltanto tra due persone. E’ diverso se i partecipanti alla chat sono di più: in questo caso, scatta la diffamazione. Non dobbiamo pensare che in Rete si applichino regole diverse rispetto a quelle che valgono per la realtà analogica: se parlo male di una terza persona al bar davanti a testimoni e uno di loro lo riferisce all’interessato, lui è subito chiamato in causa e può agire di conseguenza” spiega Carlo Blengino, penalista esperto di web e di new media, al ‘Corriere’.
Certo, la diffamazione infatti c’è. E non la mette in dubbio neanche la legale che assiste le due ex dipendenti. Il licenziamento, però, pare esagerato. Ma toccherà al giudice del lavoro decidere chi ha ragione nella causa. Chi forse dovrebbe provare un po’ di rimorso è la collega che ha riportato la stampata della chat al capo: a che pro? Per gelosia, forse? Per cattiveria gratuita?
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