Mentre in molti erano impegnati a protestare sui 2 centesimi per i sacchetti della frutta nei supermercati, un altro aumento molto più elevato è arrivato a gravare sulle spalle degli italiani all’inizio del 2018: parliamo del pedaggio autostradale. Una maggiorazione importante, secondo l’Anas del 3,3%. Questo aumento è la media tra tutte le variazioni di prezzo delle diverse autostrade italiane: ad esempio la Milano-Serravalle è aumentata del +13,9%, +8,34% la Torino-Milano, spicca uno spumeggiante Aosta Ovest-Morgex +52% per soli 31 km di autostrada. Ma perché questi aumenti? Sono sensati? A chi vanno? Chi c’è dietro questo business da tanti, troppi soldi? Facciamo chiarezza, cercando di capire chi sono i protagonisti della vicenda e chi ci guadagna.
Una piccola premessa storica: gran parte delle autostrade italiane vengono create tra gli anni sessanta e la fine degli anni settanta. Queste autostrade sono costruite da istituzioni e da aziende pubblche, che hanno avuto la concessione dallo Stato di un tot di anni (in genere una ventina) di quel tratto di strada costruito. Queste aziende pubbliche in cambio si sono tenute tutto ciò che veniva dai pedaggi nel corso degli anni. Dagli anni ’80 in poi la rete delle autostrade italiane ha praticamente smesso di crescere, attestandosi ad oltre 7.000 km. Nonostante ciò il sistema delle concessioni è proseguito. Ora la rete autostradale è in mano a diverse aziende: spiccano Autostrade per l’Italia (di proprietà di Benetton), che tiene in concessione quasi 3.000 km di strada, e il gruppo Gavio che possiede 1.400 km di rete. Il resto è in concessione a enti pubblici ed altri 953,8 km gestiti direttamente dall’Anas, quindi dello Stato. Per cui più della metà delle concessioni (che in totale sono 27) sono in mano a due aziende, rivali da sempre: Benetton e Gavio. Le concessioni attuali hanno durata molto variabile, anche 30 o 40 anni, hanno un canone da pagare allo Stato e prevedono che ogni cinque anni il concessionario metta in atto un piano di opere di migliorie da eseguire. Il costo del canone di concessione che le aziende di gestione devono pagare, al Ministero dei Trasporti per il 58% e all’Anas per il 42, è fissato al 2,4 per cento dei pedaggi esclusa l’Iva. In pratica lo Stato “regala” l’Autostrada a un’azienda per un certo periodo di tempo, in cambio di un canone da versare e di diversi lavori (tra manutenzione, sicurezza, etc). La concessionaria si tiene il pedaggio, tranne naturalmente l’Iva, quindi lo Stato incassa comunque.
Per capire se questi aumenti delle tariffe dei pedaggi autostradali sono motivati, bisogna prima di tutto spiegare come vengono stabilite e come sono regolamentate queste tariffe. La gestione delle autostrade è disciplinata da un contratto tra lo Stato e il gestore privato. La tariffa autostradale subisce un aumento annuale determinato da diversi fattori: dal costo dei lavori effettuati nell’anno precedente (che devono essere inclusi nel piano di opere scritto in precedenza), dalla remunerazione del servizio di gestione e da un valore direttamente proporzionale all’inflazione.
Tra il 2008 e il 2013 le spese totali di queste aziende sulle autostrade di loro competenza hanno sfiorato gli 11,5 miliardi, quasi 4 per manutenzione, di cui 6,7 ad opera dell’azienda di Benetton, ma gli investimenti complessivi sulla rete sono crollati a 800 milioni di euro nel 2016 contro una media annuale di 2,4 miliardi/anno nel periodo 2008-2015. Diminuiscono per queste aziende anche i costi di gestione (aumenta l’automazione e sono scomparsi i casellanti), mentre il traffico è cresciuto nel 2016 del 2,3%, per cui sono cresciuti i pedaggi e quindi gli introiti. Crescono gli incassi, mentre le spese e gli investimenti calano. L’aumento del 2018 è, in media, di oltre il 3%. Contando che l’inflazione arriva a circa l’1%, questi rincari sono assolutamente immotivati.
Le concessioni hanno scadenze di solito lunghe per consentire al concessionario di vedere ripagati i propri investimenti. Tutto quindi è finanziato a debito e i debiti ripagati con i pedaggi. Esempio: se il costo della concessione e delle opere di creazione dell’autostrada e ammodernamento è 100, ogni anno si incassa 10, in 10 anni il debito è ripagato. Se la concessione dura 15 anni l’azienda ha 50 di utile. Fin qui tutto bene. Il problema sussiste quando le concessioni ormai scadute vengono rinnovate alle stesse aziende addirittura di 40 anni, quando ormai gli investimenti sono stati ripagati. L’aumento annuale dei pedaggi anche per le vecchie autostrade già ammortizzate, le cui gare sono state vinte più volte dalle stesse concessionarie, rappresenta una forma di tassazione indiretta. Se la costruzione è completa, i lavori di ammodernamento su quella autostrada sono diminuiti e non si attua mai un cambiamento al ribasso dei pedaggi, i soldi dati ai caselli diventano tasse da pagare allo Stato e guadagno per il concessionario. E poi c’è il mancato controllo sugli effettivi lavori fatti da questi Gruppi sulle autostrade e sul costo di queste opere. Infine c’è che queste aziende guadagnano miliardi di euro (non milioni) anche se le concessioni sono scadute: ad esempio la concessione al Gruppo Gavio della Torino-Piacenza è scaduta il 30 giugno 2017, da quando e scaduta Gavio ha guadagnato 128 milioni da questa autostrada. Dato che in Italia ci si mette 2 anni a fare una nuova gara d’appalto, Gavio avrà altri 389 milioni di incassi prima di fare la nuova gara, che probabilmente vincerà lui.
Chi ha le concessioni autostradali ha una vera miniera d’oro: si parla di oltre 7 miliardi di euro di fatturato ogni anno e l’83% arriva dai pedaggi. Per questo le Autostrade italiane detengono un record europeo: insieme a quelle francesi garantiscono a chi le gestisce i ricavi annui più alti per chilometro, circa 800mila euro. La Sias (Società del Gruppo Gavio) non ha mai chiuso un bilancio con utili netti inferiori al 14% dei ricavi, discorso analogo per la società dei Benetton. Dei circa 7 miliardi annui che entrano nel portafoglio dei gestori, più di 2 finiscono subito nelle casse dello Stato o dell’Anas, sotto forma di canoni, tasse dirette o indirette. Il mercato delle concessioni si caratterizza per questo intricato gioco d’intrecci fra pubblico e privato.
Come detto quindi, la concessione di una autostrada è data in cambio di un canone, di costanti opere di ammodernamento e di migliorie della struttura. Queste opere devono essere precedentemente segnalate. Il problema è che le procedure previste per valutare costi e lavori effettuati sono il massimo della burocrazia, come se si trattasse di un segreto militare. C’è un ente indipendente che dovrebbe valutare tutto ciò, chiamato Autorità dei Trasporti, ma questa Authority, quando si rivolge al Ministero dei Trasporti, non può avere accesso a niente: nei documenti ci sono segreti industriali delle società e quindi non possono essere comunicati. Per cui finisce che nessuno controlla e lo Stato accetta, avvallando senza mugugni ogni tipo di aumento dei pedaggi, conscio comunque che incasserà.
Tante polemiche ha suscitato l’articolo 5 del Decreto Legge n. 133 del 2014: gli attuali concessionari possono ottenere lunghe proroghe delle concessioni senza alcuna gara pubblica, in cambio solo di investimenti sulle tratte. Nulla di nuovo insomma: le concessionarie si assicurano incredibili ricavi grazie al rinnovo delle concessioni senza gara. Il Governo giustifica la proroga in cambio di nuovi lavori che le concessionarie si impegnano a fare, ma il beneficio delle proroghe supera di gran lunga il costo dei nuovi investimenti. Naturalmente anche le opere di migliorie sono fatti senza gara pubblica, ma solo in accordo con l’Anas. C’è un interesse sia dell’Anas che dei concessionari, quindi, a fare sempre lavori e lavoretti. Ricordiamo che l’Anas possiede una parte di queste concessioni delle Autostrade (circa 1.000 km su 7.000 km di rete autostradale), e incassa una parte del canone versato da Gavio e Benetton. Anas quindi non può applicare ad altri concessionari regole diverse di quelle che applica alle proprie concessioni, se lo facesse danneggerebbe anche se stessa. Tutti zitti e tutti contenti.
Il mondo delle autostrade è una specie di monopolio, o meglio, un oligopolio naturale. Ad esempio sarebbe impossibile costruire un’altra autostrada concorrente a una già esistente e quindi creare una situazione di concorrenza, non sarebbe permesso a nessuno. Quando l’oligopolio è in mano ai privati, questi ci guadagnano e a pagare sono i consumatori. Gestire un’autostrada è attività molto semplice: non occorre cercarsi clienti e non c’è concorrenza. Un potere enorme è stato dato a queste aziende, che finiscono per avere il coltello dalla parte del manico anche nei confronti dello Stato. I concessionari incassano troppo rispetto a quello che ridistribuiscono agli utenti, il gioco dei superprofitti avviene con il meccanismo di sovradimensionare i costi delle migliorie, che fanno Anas e i concessionari insieme, cioè controllore e controllato. Quindi a verificare e controllare la qualità dei lavori realizzati è un soggetto che fa parte dello stesso gruppo.
Lo Stato regala l’autostrada ai privati quando c’è da guadagnare. O meglio, ci guadagna anche lui, ma molto poco, e quello che gli altri ricavano non lo investono come dovrebbero nelle infrastrutture. Alcune concessioni sono scadute da anni e i governi, invece di fare le gare, prorogano i contratti con la promessa di nuovi investimenti da parte di queste società, che però sono diminuiti: nel 2016 -20% rispetto al 2015, mentre la spesa per le manutenzioni è calata del -7%. Ma nessuno dice nulla. Dal 1999 in poi si è privatizzata tutta la rete autostradale, in quanto i soldi per la costruzione erano già stati ammortizzati. Si voleva aprire ad un mercato concorrenziale di tanti privati in modo da abbassare le tariffe, ci si è ritrovati in un oligopolio fatto di poteri fortissimi, con lo Stato che si prende la sua fetta. C’è un interesse, quindi, sia dei privati sia dello Stato, a mantenere questa condizione di oligopolio: le tariffe autostradali funzionano come un’imposta mentre i privati fanno affari d’oro.
La risposta è facile, purtroppo: pagare. Si perché è difficile che qualcosa possa cambiare. L’Unione Europea ha più volte aperto delle procedure d’infrazione contro il nostro Paese per le distorsioni presenti nel mercato delle concessioni, ma al momento non è successo nulla. Al di la che le concessioni per queste aziende si concluderanno per molte autostrade nel 2038, 2040, per alcui tratti stradali anche nel 2050, lo Stato dovrebbe, in un mondo ipotetico, favorire gli investimenti e la qualità dei servizi e nel mentre ridurre le tariffe. Si deve avere il coraggio di aprire il mercato ad operatori italiani e esteri, pubblici e privati, con gare d’appalto trasparenti. Senza gara aperta, infatti, è probabile che il costo del lavoro sia maggiore, come accade oggi. Ma invece andrà sempre avanti così, mentre l’opinione pubblica pensa ai sacchetti per la frutta.
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