Pedone investito mortalmente su una statale, al buio, automobilista condannato in primo grado e in appello. Ma la Cassazione annulla la sentenza e impone un nuovo giudizio di secondo grado, perché il pedone non indossava il giubbotto catarifrangente, quindi l’incidente non è stato evitabile. Questa sentenza mette in evidenza un aspetto spesso trascurato nella considerazione generale: che anche i pedoni, come gli altri utenti deboli della strada (ciclisti e motociclisti), sono tenuti ad osservare le norme della circolazione, soprattutto perché sono loro stessi a subire le conseguenze più gravi negli incidenti; quindi anche per i pedoni si devono valutare eventuali responsabilità. Analizziamo la vicenda.
L’incidente accadde il 20 febbraio 2006 in Basilicata, lungo la strada statale 407 verso Potenza. Secondo la ricostruzione narrata nel testo della sentenza, la strada era molto buia, l’automobilista si era immesso in una corsia di decelerazione per svoltare, ma non aveva visto il pedone, che stava camminando nello stesso senso di marcia; investito, egli veniva scaraventato a terra; in quel momento sopraggiungeva un’altra auto che lo investì a sua volta, provocandogli lesioni gravissime che lo condussero alla morte. I rilievi e le indagini stabilirono che la vittima stava camminando in quel tratto, dove la circolazione pedonale non è consentita, perché la propria auto era rimasta senza benzina e quindi stava cercando una stazione di servizio. Non indossava l’obbligatorio giubbotto riflettente.
Il processo al primo automobilista si concluse in primo grado nel 2013 con una condanna per omicidio colposo da parte del Tribunale di Matera. Tale sentenza venne confermata dalla Corte di appello di Potenza nel 2015.
Ma al successivo ricorso la Cassazione, con sentenza della quarta sezione penale numero 35834 del 14/4/2016 (depositata il 30/8) ha annullato la seconda sentenza con rinvio; significa che si dovrà tenere un nuovo procedimento di secondo grado, questa volta presso la Corte d’appello di Salerno.
La corte suprema ha stabilito che nel processo di appello non è stato adeguatamente analizzato il problema della “causalità della colpa”. Vuol dire che non è stato accertato oltre ogni dubbio se il primo investimento sia stato effettivamente causato da una colpa dell’automobilista.
Il Codice penale, all’articolo 43, stabilisce che un delitto è colposo “quando l’evento non è voluto e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia“.
In primo grado il Tribunale ha evidenziato che la colpa dell’automobilista è stata la velocità troppo elevata, stimata (ma non accertata da strumenti) in 40/50 Km/h. Per la prima Corte egli avrebbe dovuto procedere più lentamente e azionare i fari abbaglianti.
Ma la Cassazione ha fatto notare che è necessario valutare concretamente in ogni singolo caso se l’imputato abbia avuto qualche possibilità di evitare il sinistro; la sentenza usa l’espressione “prevedibilità ed evitabilità in concreto dell’evento“.
Il cardine della questione è spiegato in questo successivo passaggio della sentenza: “Nel caso di specie si trattava di comprendere se, nelle condizioni date, la condotta della vittima — che, sceso dalla propria autovettura, circolava su strada extraurbana senza giubbotto retrorifiettente — fosse prevedibile e se le conseguenze letali dell’infortunio fossero evitabili nei sensi che si sono sopra esposti“.
Il testo cita quindi l’articolo 141 del Codice della strada, che regola i comportamenti da osservare sulla velocità. Esso “Riguarda esclusivamente gli eventi che ricadono nella sfera di prevedibilità ed il comportamento di un pedone che procede in strada extraurbana, al buio, senza giubbotto retrorifiettente e contromano costituisce una condotta che ben potrebbe esulare dalla suddetta sfera di prevedibilità“.
Questo aspetto cruciale per stabilire l’esistenza della colpa dell’automobilista, non è stato tenuto in considerazione nel processo di appello, ha concluso la Cassazione. Da qui l’annullamento e il rinvio.
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