Quando un ragazzo comincia a lavorare, pensare alla pensione è quasi d’obbligo per potersi garantire un futuro dignitoso. E’ possibile prevedere come saranno le pensioni dei giovani, che per poter essere paragonate a quelle dei loro genitori saranno frutto di molti anni lavorativi in più. Con l’introduzione del calcolo contributo per tutti coloro che hanno cominciato a lavorare dopo il 31 dicembre 1995, la pensione sarà il frutto dei contributi versati durante l’arco della vita lavorativa, quindi per potersene garantire una adeguata i giovani dovranno lavorare con costanza, fino a tarda età e percepire uno stipendio alto.
La tendenza degli ultimi tempi di iniziare a lavorare più “tardi” rispetto alle generazioni passate sicuramente influisce sull’età pensionabile, contando inoltre che per ottenere un impiego stabile ci si mette più tempo e spesso molti giovani cambiano lavoro nell’arco della loro vita. Un altro fattore da non sottovalutare è la soppressione del “paracadute minimo dell’integrazione“, ovvero il soccorso dello Stato che assicura una pensione minima (ad oggi del valore di 500 euro) a chi non raggiungerebbe questa cifra nemmeno con i contributi versati. Si stima che su 16,4 milioni di pensionati ben 3,6 milioni ne beneficino.
Con la riforma Dini del ’95 fu introdotto il metodo di calcolo contributivo e ci si rese conto che l’equilibrio finanziario del sistema veniva assicurato a scapito dei giovani che avrebbero preso meno dei genitori, a parità di anni e contributi. Come recuperare? Con la previdenza integrativa che però, piccolo dettaglio, può permettersi solo chi ha un lavoro stabile e una retribuzione dignitosa, destinando ai fondi anche il Tfr e rinunciando così alla liquidazione che percepivano i loro genitori. Con le successive riforme e l’aumento dell’età di pensionamento i tassi di sostituzione teorici sono saliti, ma per corrispondere a realtà serve anche una mano da parte dell’economia, che deve crescere al fine di ridurre il numero di lavoratori precari.
Secondo le simulazioni della Ragioneria generale dello Stato, un lavoratore dipendente che si prevede andrà in pensione nel 2050, potrà percepire una pensione netta pari all’83,1 % dell’ultima retribuzione netta sottostando però ad alcuni requisiti: avere lavorato per almeno 40 anni e raggiunto i 70 anni di età, quella che si stima sarà nel 2050 la pensionabile per vecchiaia. Per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1996 la riforma Fornero ha introdotto la possibilità di andare in pensione fino a 3 anni prima, ma solo dopo avere maturato un importo di almeno 2,8 volte l’assegno sociale, ovvero più di 1.256 euro lordi.
Sempre la Ragioneria di Stato ha stimato che nel 2050 potrebbero usufruire della pensione a 67 anni con 37 di contributi, percependone una netta pari al 71,5% dell’ultimo stipendio netto. Per poter lasciare il lavoro prima dei 67 anni e usufruire di un contributo pari all’82% netto, i nostri ragazzi dovranno aver lavorato almeno 46 anni. Tutte queste sono ovviamente ipotesi e vanno valutate sullo “scenario base” che prevede una crescita media annua del prodotto interno lordo reale, al netto dell’inflazione, dell’1,5%, una crescita delle retribuzioni reali dell’1,5% e l’inflazione stessa del 2%. Inoltre, tutte le simulazioni prevedono tassi di sostituzione più bassi di 5-10 punti per i lavoratori autonomi, in quanto versanti un’aliquota contributiva inferiore (22%) rispetto a quelli dipendenti (33%).
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