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L’onomastico a Napoli è quasi più importante del compleanno: il giorno dedicato al Santo di cui portiamo il nome è tradizione, a differenza che in altre zone d’Italia, festeggiare offrendo le pastarelle (i pasticcini) ad amici e parenti. Si festeggia soprattutto se si ha un nome importante come quello di Giuseppe, padre di Cristo e simbolo di paternità. Tanto è vero che per la ricorrenza del 19 marzo i napoletani hanno addirittura inventato un dolce tipico: le zeppole di San Giuseppe.
Probabilmente Don Peppe Diana, Parroco della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, nella periferia di Caserta, quella mattina aveva intenzione di offrire proprio le zeppole di San Giuseppe per festeggiare il suo onomastico ai tanti casalesi che – con la forza delle parole – stava allontanando dalla camorra. Ma non ne ebbe il tempo: alle 7.20 del mattino del 19 marzo 1994 i killer del clan dei casalesi lo raggiunsero nella sacrestia della Chiesa e – con la forza della violenza – interruppero la sua vita e quindi la sua opera.
La sua principale colpa era, agli occhi dei camorristi e non certo dei casalesi (egli stesso ci teneva che con il termine casalesi si indicasse gli abitanti di Casal di Principe e non gli affiliati al clan), quella di aver redatto e diffuso, con l’aiuto di altri parroci della forania di Casale, un volantino intitolato proprio «Per amore del mio popolo non tacerò». E infatti, per amore di quello che è anche il mio popolo, Don Peppe Diana non tacque.
Ma in quel documento Don Diana non attaccava solo i camorristi, anzi individuava e riconosceva precise responsabilità politiche di quella che era la situazione in Campania e nel Mezzogiorno d’Italia. «E’ oramai chiaro – scrisse Don Peppe Diana – che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale».
«L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc – continuava il Parroco di Casal di Principe – non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio».
Ancora una volta, allora, dobbiamo interrogarci su chi siano i veri mandanti dell’omicidio di Don Peppe Diana. Se indubbiamente a ordinare ed eseguire l’assassinio furono i camorristi, non si possono non riconoscere le responsabilità, politiche e penali, di chi ha permesso che la criminalità organizzata prendesse il sopravvento sulle legalità. Non si può non ritenere la classe dirigente italiana e le istituzioni statali da essa amministrate colpevoli di aver creato i presupposti, o quanto impedito che questi si venissero a creare, perché Don Peppe Diana venisse ucciso.