Il Napoli ce l’ha fatta: gli azzurri guidati da Luciano Spalletti sono riusciti a conquistare il terzo scudetto della loro storia. La notizia non è, in realtà, più una notizia dato che da settimane l’ambitissimo traguardo era nell’aria, soprattutto grazie all’ampio distacco che i partenopei hanno man mano accumulato rispetto ai diretti avversari. Ora che la matematica, per ultima, ha premiato il cammino degli azzurri, si può tranquillamente affermare che Victor Osimhen e compagni abbiano dominato in tutto e per tutto la Serie A 2022/23. L’hanno fatto attraverso il gioco, la manovra accerchiante, un gioco avvolgente e che, a un certo punto, ha fatto invidia e attirato l’attenzione di alcuni dei migliori club d’Europa. Ora è il momento di godersi il successo e assaporare concretamente di aver scritto la storia d’Italia.
La grande bellezza questa volta non ha i contorni della capitale con le sue immagini austere, gli sfondi opulenti di magnificenza che ti avvolgono gli occhi, la grandezza e le lacrime. No perché, da un punto di vista puramente calcistico, intriso di altre sensazioni, colori, mare, Maradona e qualche trombetta di troppo, il trionfo è tornato ad aleggiare nel cuore di Napoli, in tutte le sue contraddizioni e con quel potere magnetico, amo et odi, che pochi altri posti nel mondo riescono a percepire con quest’intensità. Una grande bellezza che, quasi fosse immersa in una navicella spaziale sparata dall’ultraterreno e pronta a conquistare la terra, è piombata direttamente al centro dello stadio Maradona e da lì tutto è cambiato.
Scritto così sembra un misto tra un film di Paolo Sorrentino e uno di fantascienza con la trama ridondante e dal budget limitato, ma i nuovi campioni d’Italia quest’anno ci hanno letteralmente travolto, raffigurando a pieno il vero animo della città, un contraddittorio di sentimenti difficilmente replicabili e spiegabili. È un successo fatto d’amore, ma che parte da tempo fa, come le fiabe, e dalla razionalità che implica essere politici e dirigenti. E dalla gente fin troppo stereotipata e sottovalutata, che Napoli è anche successo e il successo è anche Napoli. Ma attenzione: non ci dilungheremo sul fallimento dei partenopei, l’arrivo di Aurelio De Laurentiis, la lenta risalita e ora il primo posto. Non lo faremo perché gli Hamsik, i Lavezzi, i Cavani, i Cannavaro e gli Aronica sono stati essenziali in altre fasi della storia del club, non ora. Sarebbe come levare meriti e peso a chi questo trionfo l’ha costruito nel concreto e negli ultimi mesi, dal lavoro alla testa fino alle gambe. Entrando nella storia ed elevando indirettamente anche chi prima di loro, negli stessi luoghi e forse con le stesse possibilità, non ce l’ha fatta.
La stagione del Napoli, almeno in estate, era iniziata con ben altre aspettative. Sì, perché gli azzurri targati Spalletti, al loro primo anno, erano andati bene, ma non troppo. Trofei non ne erano arrivati, e non c’erano andati neppure vicino, ma alla fine l’obiettivo della qualificazione alla Champions League successiva non era sfuggito. Una magra consolazione per chi era abituato a ben altro in altri periodi, ma che anche negli anni di dominio della Juventus, tra il 2012 e il 2020, aveva più volte sfiorato il traguardo scudetto, perdendosi sempre sul più bello. La sensazione che dava la squadra dell’anno scorso era di aver dato tutto, di essere arrivata a fine ciclo e di dover cambiare interpreti bravissimi in un certo tipo di calcio, ma che probabilmente avevano bisogno di aria nuova e di nuove motivazioni.
La voglia di novità nel calcio ha bisogno di essere ascoltata e va di pari passo con la ricerca della gioventù, che sembra quasi uno slogan a caccia di oscar o una pellicola strappa lacrime, parlando il linguaggio di De Laurentiis e della cinematografia in generale. In realtà, si tratta dell’ossessione più genuina che fiuta un bravo dirigente, insieme alla stanchezza, di quelle su cui si basano intere sessioni di calciomercato e i progetti per il futuro. Già dalla scorsa primavera, forse anche dall’inverno, Cristiano Giuntoli si è lasciato guidare da questa vocina sempre più incalzante e da lì ha scritto una nuova storia, fatta di lacrime, addii e poi soprattutto da sogni.
Nel giro di pochi giorni, un’intera città di soldati innamorati ha dovuto salutare un capitano come Lorenzo Insigne, per primo. Uno che è raffigurato anche sui muri dei quartieri Spagnoli in diverse gigantografie, dai polpacci un po’ più gonfi per l’ego all’acconciatura da ragazzo qualunque, pelo per pelo e vena per vena. È un po’ il loro modo per dire che gli sei rimasto nel cuore e nei loro libri di storia. L’addio è stato più lungo, e quindi più doloroso, per Dries Mertens: parliamo di un cuore belga che man mano si è colorato di azzurro e ha esultato talmente tante volte, mentre il boato dei tifosi gli faceva tremare la linguaccia, da riuscire a diventare il miglior cannoniere della storia del club, davanti a dei veri e propri mostri sacri. E poi l’adozione del mito da parte di un popolo, quando ti chiamano Ciro, è l’atto più puro d’amore che un calciatore possa desiderare. L’immortalità, appunto. E, quindi, tante grazie (ma davvero) e così via al prossimo. Anzi, ai prossimi, perché la stessa sorte è capitata a Fabian Ruiz e Kalidou Koulibaly. Storie diverse e non perché è diversa la passione che ha circondato la loro presenza nel capoluogo partenopeo o l’importanza per i successi di squadra, quanto per quel sottofondo fatto di offerte, banconote e calciomercato, poi di club come PSG e Chelsea, che difficilmente fa rima con quell’attaccamento viscerale che Napoli si porta dietro nelle sue essenze quotidiane. E che ci piace anche di più – ammettiamolo – rispetto alla freddezza del denaro.
Insomma, chiamatelo restyling, chiamatela rivoluzione, ma l’estate azzurra ha perso talmente tanti pezzi pregiati da dar la sensazione di aver depauperato una vetrina ghiotta e succulenta dei suoi cibi più richiesti e identificativi, fino a renderla meno appetibile. In realtà, era tutto nei piani della coppia Giuntoli-De Laurentiis e in cantiere c’erano altre leccornie che ora hanno molto più appeal di quelle precedenti. La fascia di capitano rimasta vacante si è stretta attorno al braccio di Giovanni Di Lorenzo, un terzino muscolare, affidabile e anche qualitativo quando può, ma che ben presto è diventato molto di più. Simbolo di mentalità, gioventù, Italia e più napoletano di quanto non si sarebbe mai aspettato. L’uomo perfetto per raffigurare sul campo le spalle larghe di un progetto meno istintivo e più equilibrato, votato al calcio in sé e per sé e senza tante storie da prima pagina attorno.
Lui, però, c’era già, mentre tutto il resto gli si è costruito attorno. Kim Min-Jae, sempre per restare alla difesa, ha quel cognome tutto d’Asia e che non lasciava presagire una struttura fisica del genere e una determinazione che associamo a ben altri posti del mondo. Non c’è voluto molto per spazzare via i preconcetti e svelare che ogni tanto a guardare a Est, e poi in Spagna, dato che giocava nel Valencia, si possono anche cogliere delle perle. Da tipo per meme, è diventato un urlo. Il Kim, Kim, Kim che l’intero Maradona gli fa piovere addosso a ogni intervento. Il colosso che stronca le ambizioni avversarie e le riporta direttamente nel cuore di Napoli e del Napoli. L’erede perfetto di Koulibaly ed esattamente nella stessa zona di campo che ha lasciato i rimpianti rinchiusi in un cassetto, tirando fuori gli obiettivi e senza che facessero più paura.
Se la diffidenza sembra farla da padrone nei racconti di un’estate soleggiata e dai nasi storti, Khvicha Kvaratskhelia è il pezzo forte della carrellata. Il gioiello nascosto dietro gli orologi più pubblicizzati e per questo anche in sconto, ma che solo gli appassionati più attenti potevano riuscire a cogliere e portarselo a casa. Chiedetelo a Maurizio Sarri, uno che dalle parti di Napoli conoscono bene, e che l’aveva chiesto già ai tempi della Juventus come espressione perfetta del suo gioco offensivo. Ma alla fine i bianconeri non gli avevano dato retta più di tanto, puntando invece su profili più pronti e conosciuti. E ne sanno qualcosa anche Lazio e Milan, i cui scout avevano segnalato a più riprese il talento del georgiano, ma poi era finita lì, come tanti calciatori in lista e che poi terminano la loro corsa nel dimenticatoio.
Le perplessità maggiori erano soprattutto sulle condizioni fisiche dell’esterno d’attacco che, da diverse segnalazioni, era soggetto a stancarsi facilmente e a qualche infortunio di troppo. A Napoli neanche l’ombra di tutto ciò, perché crederci a volte è più importante. Ma poi quanto volete che conti un nome del genere, né esotico e neppure facile da pronunciare? Sicuramente non avrebbe potuto sostituire uno come Insigne, eh. Tutto smentito dai fatti e da una storia completamente diversa. Kvaradona, soprannome che si è meritato già dalle prime settimane con i suoi nuovi tifosi, ha iniziato essenzialmente a fare ciò per cui è nato e che gli piace di più: scartare avversari, creare la superiorità numerica, poi tentare l’assist o il tiro vincente. E di gol spettacolari quest’anno ne ha messo a segno talmente tanti da far impazzire anche il Liverpool e le big europee. Uno di un’altra categoria, dicono ora, ma prima chi ci ha scommesso?
La macchina perfetta di Spalletti, fatta di tattica, grinta e amore, si è formata anche attraverso un centrocampo profondamente diverso negli uomini e soprattutto negli intenti. E qui si è vista pesantemente la mano dell’allenatore che ha scelto di far girare il gioco attorno a un perno come Stanislav Lobotka e completare il tutto con muscoli, fisicità e progressione, esattamente quello che serviva per equilibrare il talento e la qualità di Piotr Zielinski e che si è materializzato sotto forma di Zambo Anguissa e, all’occorrenza, Tanguy Ndombele. Sembrava poco, meno dell’anno precedente, tanto che nelle classifiche estive (quelle quasi mai rispettate) in molti piazzavano i partenopei addirittura fuori dalle prime quattro. Forse anche per questo, e più probabilmente perché qualche soldino gli era anche rimasto dopo tutte quelle cessioni, sono arrivati due colpetti diversi, pescati in Serie A e ben conosciuti anche dalle nostre parti, ma sempre all’insegna del talento e della cattiveria agonistica. Siamo certi che, doti tecniche a parte, ciò che ha contraddistinto più di tutto Giacomo Raspadori e Giovanni Simeone sia quella voglia ossessiva di gettarsi su ogni pallone, non lamentarsi per le panchine e sfornare costantemente una rabbia sportiva che, se non ci nasci, è maledettamente complicata da riprodurre. Promossi, entrati in squadra.
Tra le critiche e la sfiducia, anche all’interno della città, il Napoli si è preparato in ritiro come fosse la stanza dello spirito e del tempo. Alimentando un sogno a cui Osimhen, dalle voci di corridoio, ha sempre creduto e che pian piano ha trasferito a ogni elemento del gruppo, aiutato dall’allenatore. Da lì gli azzurri non si sono più fermati e hanno iniziato a raccogliere consensi, soprattutto grazie a delle prestazioni mostruose in campo. Già ad agosto, dopo le prime fatiche di campionato, c’è chi si è sbilanciato all’interno del mondo del calcio e sottolineando come per lo scudetto ci fossero (e come) anche i ragazzi di Spalletti. Stiamo parlando di Giovanni Galeone, uno che di calcio ne ha masticato parecchio per tutta la vita e che si era espresso in questi termini nei confronti del sodalizio partenopeo: “A oggi, 23 agosto, posso dire che il Napoli vincerà lo scudetto. È l’unica squadra che ho visto, per adesso, insieme alla Cremonese che pratica un bel calcio. Gli azzurri giocano divinamente bene, mettiamo da parte le scaramanzie del caso: io dico titolo alla squadra di Luciano Spalletti”. E ancora: “L’allenatore ha fatto un lavoro stupendo. De Laurentiis, tanto criticato, non spendendo tanti soldi ha fatto una squadra esagerata. Avevo solo un dubbio: Zielinski. Invece sta giocando benissimo, gioca in verticale, per innescare bene con Osimhen e Kvara è l’ideale. Zielinski lo conosco dai tempi dell’Udinese e lo vedevo come un fenomeno, non capivo come Guidolin non lo facesse giocare. Non vedo tanti ostacoli per il Napoli per vincere lo scudetto”.
E di ostacoli effettivamente non ce ne sono stati poi tanti, anzi il Napoli della grande festa ha spazzato ben presto via tutti i dubbi su chi sarebbe arrivato al titolo e l’ha fatto con una coerenza nel gioco che ha permesso ai partenopei di essere avvicinati a squadre come Manchester City, Ajax, per alcuni anche il Barcellona. La mano di Spalletti, che per i napoletani è stata quasi la mano di Dio, sempre per restare a Sorrentino, si è vista molto di più e con molta più efficacia, figlia di un anno di lavoro alle spalle con il nucleo forte della rosa, ma anche perché stavolta a disposizione c’erano interpreti molto più pronti a esprimerla al meglio.
La sensazione che trasferisce questa squadra è quella di uno schiacciasassi pronto ad attivarsi da un momento all’altro e che colpisce nei momenti cruciali della partita. Nei primi scampoli di stagione, anche in Champions League, il Napoli è stato contraddistinto da inizi violenti, forti, in cui l’architettura complessa della squadra si esprimeva con dei ritmi forsennati, delle trame di gioco alternate, e quindi imprevedibili, ma soprattutto un pressing impressionante e una linea alta che può tenere solo chi è coraggioso e ben consapevole delle sue qualità. Settimana dopo settimana, in molti hanno trovato il loro stato perfetto di forma e Kvaratskhelia con le sue vene gonfie, le discese travolgenti palla al piede, i gol e gli assist vincenti è diventato il fulcro offensivo di una squadra capace di sfondare anche al centro con le spallate di Anguissa e le carezze al pallone di Zielinski. E dall’altro lato con gli inserimenti profondi di Di Lorenzo, non a caso uno dei difensori più prolifici della Serie A. E poi anche Lozano e Politano, un po’ più a corrente alternata.
In Italia un gioco del genere paga per forza, perché oggi sono poche le squadre che hanno calciatori capaci di saltare regolarmente l’avversario e di farlo mantenendo degli intenti così moderni e offensivi, che poi diventano anche efficaci. La creatura di Spalletti ha sfiorato la perfezione quando anche Osimhen, reduce da un infortunio nella prima parte di stagione, ha toccato la forma migliore di tutta la sua carriera. Il nigeriano con la maschera nera per proteggere il naso, ma anche un po’ i sogni, è diventato improvvisamente una macchina colossale da gol, un bomber completo capace di trovare la via della rete praticamente in ogni partita, o con medie comunque del genere. Da lì si è affinato anche l’asse con Kvara che ha iniziato a cercarlo ossessivamente all’interno dell’area di rigore, favori spesso ricambiati dall’ex Lille e che spesso hanno portato a vere e proprie goleade. Il tutto e sempre senza perdere in solidità difensiva o possesso palla, in perfetto stile Spalletti, l’architetto del mare, dei punti e dei pittori in campo.
Nella parte centrale di stagione, il Napoli si era già portato a casa diverse soddisfazioni, tutte meritate, a prescindere dai colori che si scelgono di tifare o dal gusto per il calcio che si ha. Il vantaggio in campionato era più che soddisfacente, di quelli che non ti fanno identificare delle vere e proprie antagoniste per la corsa allo scudetto. E in Champions League le cose erano andate più che bene, anche al cospetto di club complicati come Ajax e Liverpool. In tanti hanno cominciato a guardare al Napoli come un modello da seguire, tanto che anche Pep Guardiola ne ha parlato come stesse parlando di una delle favorite per la vittoria della massima competizione europea. E Spalletti ha subito iniziato a mordere per togliere pressione ai suoi, come è giusto che sia.
Se a un certo punto, è un po’ calato Anguissa, accanto a lui è salito sempre di più in cattedra un mediano sottovaluto come Lobotka. L’Inter avrebbe potuto prenderlo a pochi spicci, poi è esploso Marcelo Brozovic nel suo stesso ruolo e soprattutto il fair-play finanziario non ha consentito di portare a termine l’operazione. In Italia c’è arrivato comunque, ma quasi come fosse una seconda scelta. La sua versione 2022/23 ha dimostrato che non può essere così. Quel ragazzo del centro Europa, del freddo, dai muscoli forti e dall’altezza poco pronunciata è un concentrato di intelligenza e protezione della palla che, come ai migliori nel suo ruolo, gli resta sempre attaccata al piede anche quando è sotto pressione. Poi la smista dove serve e spesso trovando degli spazi a cui gli altri non avevano neppure pensato. C’è chi lo paragona ad Andrea Pirlo, chi ad Andres Iniesta, sicuramente gente come lui non se ne trova facilmente in giro ed è uno di quei calciatori di cui Spalletti non ha praticamente mai fatto a meno.
La nave degli azzurri è un Titanic che non è mai affondato e che ha iniziato a dover cercare la concorrenza solo attraverso i segnali satellitari. Al massimo ha un po’ rallentato fino alla pausa per le Nazionali di fine marzo quando diversi calciatori sono tornati a casa acciaccati, Osimhen si è infortunato e la manovra ha iniziato un po’ a rallentare, gli avversari a adeguarsi. È da lì in poi che è arrivato qualche schiaffo di troppo, la maggior parte dei quali recapitati dal Milan e anche in Champions League, ma senza sporcare quello scudetto che, in realtà, i tifosi stavano lucidando da mesi e che non è mai stato davvero a rischio, tanto da far dimenticare la scaramanzia di uno dei popoli più superstiziosi in assoluto.
Il passo falso con la Salernitana ha solo concesso una piccola soddisfazione a dei nemici storici, ma la festa è stata ritardata solo di qualche giorno, poi è esplosa nelle ultime ore. Ma solo come acmè, dal greco “il punto di massima intensità o momento culminante”, di una gioia che da mesi ribolliva in ogni punto della città, dal Vesuvio al Rione Sanità, passando per i quartieri più eleganti e un lungomare che è calma e meditazione. O ciel e o mare, l’azzurro che si espande e travolge tutto, come in una fiaba o in un sogno di una notte di mezza estate. Quella da cui è partito il mito e poi non si è più fermato.
Le statuine di Osimhen, Spalletti, Kvara, quelle sulle scalinate, di carta, del popolo e quelle tipiche di San Gregorio Armeno, le bandiere che da azzurre sono diventate anche tricolore, gli scudetti con al centro il tre che hanno iniziato a spopolare: l’attesa ora è finita e, se dura 33 anni, è stata abbastanza. Non ditelo a uno come Sarri, che con il Napoli ha superato i 90 anni, ma quella coppa tanto agognata non l’ha mai portata a casa, non sulla panchina dei nuovi campioni d’Italia. L’onesto tra i puri e passato poi sull’altra sponda, quella più odiata, ma che adesso, a tradimento e delusione finiti, si sente ancora molto più napoletano che bianconero nell’animo. Con il suo linguaggio diretto e l’amore per lo sport che l’ha scelto prima ancora che lui potesse davvero scegliere altro, ha ammesso dopo la vittoria della sua Lazio contro il Sassuolo: “Sono contento che vincano lo scudetto, come ho sempre detto: da bambino tifavo Napoli. Mi dà gusto che vincano. Palese che un minimo di giramento c’è, volevo vincere io”.
Sì, voleva vincerlo lui il primo scudetto che non ha portato Diego Armando Maradona all’ombra del Vesuvio, ma alla fine non ce l’ha fatta, nonostante probabilmente lo meritasse più degli altri e nonostante l’anima di quel Napoli fosse ugualmente dominante, offensiva, totalizzante. Semplicemente appagante per chi il calcio lo mastica e lo ama. Un po’ ha inciso la sfortuna, un po’ i ricambi, un po’ i tanti impegni e una Juventus a cui era veramente difficile strappare dei punti. Sono giustificazioni e non scuse. La reale sensazione, però, è che mancasse la cattiveria e la mentalità vincente in alcuni singoli che i diretti rivali, invece, dimostravano di avere partita dopo partita. E, quindi, dopo mesi splendidi, arrivavano i passi falsi, i sorpassi, le lacrime e in quel caso non di gioia.
Questo Napoli forse è meno istintivo, ma meglio progettato e un po’ più muscolare. È una gioia per gli occhi, ma che riesce a soddisfare tutti i sensi che tocca il calcio, alla fine anche il cuore di una città intera, tanto da poter aprire un vero e proprio ciclo all’interno del football italiano e internazionale. E come cantava il grandissimo Pino Daniele, che chissà come avrebbe festeggiato questo trionfo: “Allegria, pe’ ‘nu mumento te vuò scurdà che hai bisogno d’alleria, quant’e sufferto ‘o ssape sulo Dio”. Per tanto tempo il Napoli quell’allegria, la gioia pura del calcio, l’ha lasciata da parte e l’ha immortalata in Maradona. Ora la venera, e ci mancherebbe, ma la vive nel presente come fanno le grandi squadre. Questa è la più grande vittoria che un presidente e una società possano mai desiderare: creare un nuovo mito che si sa già sarà leggenda, come lo può essere il terzo scudetto nella storia di un club, attraverso il gioco e non i pullman davanti la porta. L’unica via per vincere davvero e ora a Napoli possono anche dirvi come si fa.