I media lo chiamano ancora petrolchimico di Gela, ma già da qualche anno lo stabilimento Eni della cittadina siciliana ha cessato gran parte della sua produzione. Il disastroso incendio dello scorso marzo ha posto fine a tutte le attività, compreso il core business, e poi il colpo di grazia finale è arrivato dal ritiro del piano di sviluppo da 700 milioni di euro dell’Eni, che condannerebbe al licenziamento 1200 lavoratori, senza contare altri 1800 dell’indotto. Una gigantesca ferita in un Paese già ammalato da tempo, ma non bastasse l’emergenza sul piano economico, bisogna mettere in conto anche i danni ambientali e le conseguenze sulla salute che l’ex petrolchimico avrebbe inflitto secondo quanto emerso fino ad oggi dalle inchieste. Riecheggia il fantasma dell’Ilva di Taranto, con lo stesso mortifero intreccio tra lavoro e salute, tra il pericolo di perdere il primo e il diritto negato della seconda.
Solo un anno fa l’Eni aveva firmato un piano industriale, con un investimento da 700 milioni di euro, per l’impianto di Gela, che prevedeva il passaggio dalla produzione di benzina a quella quasi esclusiva di gasolio, con conseguenze anche pesanti dal punto di vista occupazionale: la riconversione avrebbe comportato il passaggio da 1200 a 670 operai, e la realizzazione di un’impiantistica ecologicamente sostenibile, per produrre pet-coke da utilizzare nella centrale elettrica della raffineria e un sistema di abbattimento delle emissioni nocive, come spiegava dettagliatamente un articolo de La Stampa. Dopo le proteste dei sindacati è stato approntato un nuovo piano di investimenti da 2,1 miliardi di euro, che però non ha convinto le sigle sindacali perché ritenute ‘insufficienti a garantire gli attuali livelli occupazionali‘, nonostante l’ambiziosa finalità di allargare il proprio business coinvolgendo anche settori green, come l’esplorazione di idrocarburi, la raffinazione verde, e la costituzione di un centro mondiale di formazione manageriale sulle tematiche di salute, sicurezza e ambiente. Ma il futuro dello stabilimento appare sempre più incerto.
La storia del petrolchimico di Gela
Voluto fortemente da Enrico Mattei, lo stabilimento di Gela aprì i battenti nel 1965 per sfruttare il petrolio greggio presente nella zona, specializzandosi poi nella raffinazione di petrolio di bassa qualità, materiale di scarto proveniente dai principali Paesi mediorientali produttori di petrolio. All’apice del suo sviluppo, il petrolchimico di Gela inglobò oltre 7500 lavoratori, tanto che nacque un intero quartiere, Macchitella, per i dirigenti, impiegati e altri lavoratori provenienti fuori dall’isola, progettato con palazzine signorili, tanto verde e campi da gioco. L’ottimismo sul futuro e l’idea di un progresso infinito erano le chiavi cultuali dell’Italia del boom economico. Dell’altra faccia della medaglia si sarebbe parlato dopo: d’inquinamento e i danni alla salute a Gela si inizierà a discutere molto tempo dopo.
Lo stato ambientale
A gettare luce sugli effetti ambientali dell’industria petrolchimica di Gela è stata un’inchiesta de L’Espresso dell’anno scorso, in cui emergerebbero profonde similitudini con quanto accaduto all’Ilva di Taranto. Angela Averna, professione pediatra, è la fonte che ha snocciolato al settimanale i primi impressionanti dati sull’aumento dei tumori e delle malformazioni infantili dovute a quello che lei chiama ‘il mostro’, ovvero lo stabilimento Eni: ‘Negli ultimi 12 mesi ho incontrato una leucemia fulminante, poi un tumore rarissimo al pancreas. Se l’è beccato la figlia di mia sorella. Secondo il chirurgo che l’ha operata mia nipote è stata la 619 nel mondo, ma in città non è l’unica: abbiamo altri due casi identici. Ho avuto anche un neonato morto per una malformazione cardiaca a sette mesi, mentre qualche tempo fa il figlio del mio consulente del lavoro, 4 anni s’è ammalato di un tumore al cervello‘, raccontava la dottoressa al magazine. Sulla scia delle analisi e gli studi compiuti dall’Istituto Superiore di sanità nel 2009, che ha evidenziato ‘una progressiva contaminazione di diverse matrici ambientali, nelle quali sono stati rilevati livelli estremamente elevati di inquinanti chimici con caratteristiche di tossicità, persistenza e bioaccumulo‘, la magistratura si era messa in moto, aprendo 14 processi per reati che vanno dai danni ambientali all’omicidio colposo.
Uno studio più recente dell’Osservatorio epidemiologico della Regione Sicilia, intitolato ‘Stato di salute della popolazione residente nel sito di interesse nazionale per le bonifiche di Gela’, fornisce dati ancora più inquietanti: il rischio degli uomini di Gela di morire rispetto a coloro che vivono nei Comuni vicini è più alto del 6,8 per cento, e sale al 12,3 per le donne. Le tabelle di mortalità sono in alcuni casi peggiori di quelle di Taranto: a Gela si muore per tutti i tipi di tumore, cancro infantile, morbo di Hodgkin, mieloma multiplo, con percentuali da brivido. Mentre il caso Taranto è arrivato sino ai talk show di prima serata televisiva, di Gela si parla ancora troppo poco: il rischio, assai concreto, è che anche i lavoratori siciliani si troveranno di fronte al terribile bivio se scegliere il proprio lavoro o la propria salute, una dicotomia inaccettabile. Può definirsi civile un Paese in cui non sia possibile un lavoro in completa sicurezza per la propria salute?
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