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Categories: Ambiente

Pfas in Veneto, la fabbrica dei veleni che sta facendo ammalare la Regione

L’inquinamento dell’acqua sta facendo ammalare un’intera Regione. Il caso del Pfas in Veneto viene portato alla ribalta in occasione della giornata mondiale dell’acqua: Greenpeace ha infatti chiesto ai dirigenti scolastici delle scuole primarie comprese nella zona contaminata (che comprende le province di Vicenza, Verona, Padova e Rovigo) di poter raccogliere e analizzare l’acqua potabile e verificare la presenza delle sostanze perfluoro alchiliche, cioè le Pfas. La situazione della zona è particolarmente drammatica, come ricordano alcune inchieste giornalistiche e come la stessa Regione aveva già evidenziato con uno studio redatto lo scorso 29 settembre ma reso noto a gennaio 2017. Lo studio mette, nero su bianco, i pericoli per la salute di un’intera popolazione esposta alle sostanza usate per decenni da una fabbrica chimica del vicentino, la Miteni. I livelli delle sostanze perfluoro alchiliche nelle acque locali sono così alti che si trovano a cifre folli all’interno dei pesci ma soprattutto nel sangue degli abitanti, con problemi gravissimi per la salute.

Il rapporto della Regione Veneto ha evidenziato come la presenza delle Pfas nelle acque sotterranee, superficiali e potabili, con livelli altissimi rispetto a quanto tollerato, abbia portato le popolazioni dell’area interessata, composta da circa una sessantina di Comuni, all’aumento del rischio di malattie per le donne in gravidanza e problemi per i nascituri, tra cui mutazioni cromosomiche, nonché a un aumento di diverse patologie. Lo stesso studio indica anche il responsabile dell’inquinamento delle acque. “Si è infatti rilevato che il 97% della quantità di PFAS scaricate in fognatura provenivano da MITENI S.p.A. (azienda che produce sostanze perfluorurate tra cui anche alcuni dei composti oggetto della contaminazione“, si legge nell’ultimo rapporto dell’Arpa Veneto (qui il pdf completo)

Le Pfas sono composti chimici conosciuti come interferenti endocrini, sostanze che avevamo già incontrate come responsabili del calo del testosterone nei maschi e che sono correlate a patologie riguardanti pelle, polmoni e reni. Sono sostanze usate in moltissimi prodotti, dalle pellicole antiaderenti delle padelle ai tablet e smartphone impermeabili.

Lo studio evidenzia come nelle zone interessate si siano registrati aumento della “pre-eclampsia (malattia caratterizzata da pressione arteriosa elevata, gonfiori e proteine nelle urine potenzialmente mortale per la madre e il nascituro ndr), del diabete gestazionale, dei nati con peso molto basso alla nascita, dei nati piccoli per età gestazionale e di alcune malformazioni maggiori, tra cui anomalie del sistema nervoso, del sistema circolatorio e cromosomiche, pur osservando che le malformazioni sono eventi rari che necessitano di un arco temporale di valutazione più esteso per giungere a più sicure affermazioni”.

Non solo. Il documento si riferisce a un altro rapporto del Servizio Epidemiologico Regionale, datato 23 giugno 2016, che ha riscontrato in 21 comuni un “moderato ma significativo eccesso di mortalità” per una serie di patologie “possibilmente associate a Pfas”. Nel dettaglio, si è registrato un aumento delle morti per “cardiopatie ischemiche (+21% negli uomini, +11% nelle donne), malattie cerebrovascolari (+19% negli uomini), diabete mellito (+25% nelle donne) e Alzheimer/demenza (+14% nelle donne), oltre a “eccesso statisticamente significativo” di casi di ipotiroidismo, mentre “gli studi sin qui condotti non evidenziano una maggiore incidenza di tumori”.

PFAS in Veneto, chi sapeva e chi ha coperto la Miteni

La questione si è fatta ancora più ingarbugliata perché lo studio della Regione era stato completato a settembre 2016 ma divenne di pubblico dominio solo a gennaio 2017 quando il quotidiano L’Arena ne ottenne una copia e la pubblicò. Sempre la stampa locale, parlò di un Luca Zaia, presidente della Regione, furioso di non aver saputo subito i risultati dello studio, anche perché nell’ottobre 2016 quegli stessi risultati erano stati usati nella relazione del direttore generale della sanità veneta, Domenico Mantoan. In quell’occasione, come riportò la stampa locale, si chiese di prendere provvedimenti immediati per fermare la contaminazione delle acque da PFAS , arrivando a ipotizzare addirittura la chiusura o lo spostamento della Miteni.

La cosiddetta “zona rossa“, quella nei pressi di Trissino, comprende 21 comuni nella valle del Chiampo: la presenza delle PFAS, secondo i dati della Regione, tra il 2003 e il 2015 ha contaminato 250mila persone tra le province di Vicenza e Padova. Di questi, 60mila sono i più esposti tra cui moltissimi bambini ancora in fasce, mamme alle prese con gravi problemi durante la gravidanza, pericoli e malformazioni dei nuovi nati: insomma, un disastro.

Che i PFAS fossero un disastro si sapeva da tempo. La contaminazione delle acque venete era stata scoperta già nel 2013 grazie a uno studio del CNR voluto dal Ministero dell’Ambiente: già allora, i dati dei tecnici del Consiglio Nazionale di Ricerca avevano dimostrato gli altissimi livelli di sostanze perfluoro alchiliche nelle acque. Nel 2015 c’è stata l’ennesima conferma con le analisi effettuate e diffuse da veterinari e aziende sanitarie locali che avevano certificato la presenza di PFAS in tutta la catena alimentare: i tecnici regionali però li definirono “allarmistici” e non affidabili.

A muoversi sono state le associazioni ambientaliste e “Terra dei PFAS“, il comitato che riunisce i territori più a rischio della “zona rossa”. Dopo la pubblicazione del rapporto sono partiti due esposti alle Procure di Verona e di Vicenza contro la Miteni di Trissino “quale sorgente di inquinamento” e la Regione Veneto “per non aver tempestivamente provveduto alla tutela della popolazione e dell’ambiente”, ha spiegato l’avvocato Giorgio Destro, tra i fondatore dell’associazione.

Ora si sta lavorando per una class action, mentre Zaia ha disposto un controllo medico di massa per 90mila persone. Tra i promotori della class action c’è il sindaco di Montagnana, comune del padovano tra i più contaminati, Loredana Borghesan, che a marzo ha scritto al presidente della Regione: lo stanziamento di 40mila euro per il monitoraggio e l’analisi delle acque nei 21 Comuni della zona rossa non bastano.

Solo a Montagnana sono state garantite 25 campionature: il resto lo dovrà pagare il Comune o i privati, a partire dalle aziende zootecniche e agricole, obbligate da un decreto regionale e da un’ordinanza comunale ad analizzare le acque ogni sei mesi o un anno. Davvero si dovrà “costringere i responsabili dell’inquinamento ambientale a farsi carico non solo di questi costi, ma degli immensi danni di natura sanitaria, sociale, economica che purtroppo emergeranno nei prossimi mesi e nei prossimi anni“, come scrive il sindaco? Sarebbe davvero assurdo.

Lorena Cacace

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