Una donna è morta a Torino in seguito ad una interruzione di gravidanza, dopo aver preso la pillola abortiva RU486. Ma non è solo la RU486 che i medici hanno fatto ingerire alla donna, che aveva 37 anni e si trovava all’ospedale Martini di Torino. In precedenza, il 4 aprile, aveva assunto il mifepristone, una sostanza che è capace di interrompere la gestazione nel giro di 48 ore. Pochi giorni fa la giovane è tornata in ospedale per prendere la prostaglandina, una sostanza per eliminare l’embrione. Ma nel mirino dei controlli per capire i motivi del decesso della donna è finito il Methergin. Si tratta di un farmaco non più in uso in molti ospedali per procedere all’interruzione di gravidanza. In molti ospedali questo farmaco – considerato pericoloso per gli effetti collaterali che provoca – è stato da tempo sostituito con il Cytotech.
Anna Maria M., la giovane donna che mercoledì sera ha perso la vita all’ospedale Martini dopo un malore avvenuto subito dopo la seconda somministrazione di farmaci per un aborto medico, emergono tanti punti interrogativi sui metodi più sicuri per interrompere la gravidanza senza ricorrere alla chirurgia. Anna avrebbe percepito la difficoltà a respirare, cioè il primo malore, proprio dopo l’iniezione di Methergin, un farmaco usato in ginecologia con una certa frequenza fino a qualche anno fa, atto a ridurre le perdite di sangue. Dopo una prima crisi, con diagnosi di fibrillazione ventricolare, è stato disposto un intervento di urgenza, che inizialemente era riuscito a salvare la giovane, che è stata portata in rianimazione. Ma qui ha avuto un’altra crisi ed è morta. Si dovrà procedere adesso con l’autopsia, per riuscire a capire se la causa del decesso possa essere realmente la pillola per abortire.
Insieme con le prostaglandine, che vengono somministrate per provocare l’espulsione del feto, il Methergin e il Toradol, somministrato a Anna perché accusava dolore, sono oggi le tre sostanze sulle quali dovranno confrontarsi i medici legali incaricati dell’autopsia e degli esami istologici, e il pubblico ministero Gianfranco Colace al quale è stata assegnata l’inchiesta sul decesso della donna.
Intanto l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, ha chiesto all’ospedale Martini “la scheda di segnalazione e una relazione sul caso al responsabile di farmacovigilanza della struttura in cui si è verificato il decesso, e attende di ricevere tutte le informazioni disponibili per una corretta valutazione“. Secondo le informazioni che si hanno al momento, la donna non era considerata a rischio, dal momento che non aveva particolari patologie. Non c’era stato nemmeno il parere contrario da parte del ginecologo che ha seguito il caso della signora, il quale non si era opposto al ricorso all’interruzione farmacologica.
Purtroppo in Italia non esiste un protocollo unico che indichi che cosa e come fare quando una donna sceglie l’aborto chimico. Secondo Silvio Viale, il medico che si è battuto per applicare questa metodologia in Piemonte e che oggi è tra i massimi esperti in Italia, dice ai cronisti di Repubblica: “Purtroppo l’interruzione volontaria della gravidanza è un intervento che viene studiato pochissimo nella sanità italiana e che rappresenta quasi uno sgradevole obbligo, senza ricerca né aggiornamento in materia. Il primo e finora unico corso di formazione si è tenuto al Sant’Anna l’anno scorso, il protocollo ministeriale dà indicazioni generali e comunque non è obbligatorio seguirlo“. Non c’è nulla di scontato nelle pratiche seguite per l’interruzione volontaria di gravidanza: si tratta di un intervento frequente, ma sul quale mancano ricerca e aggiornamento.
(aggiornato da Kati Irrente)