Le poesie d’amore di Gabriele D’Annunzio, quelle più belle e romantiche, riflettono l’idea che il Vate aveva del sentimento amoroso: un’emozione totalizzante, l’estasi per eccellenza. Del resto di D’Annunzio, uno degli ultimi grandi rappresentanti del Decadentismo, sono noti non solo i suoi versi sublimi, gli aforismi e alcune parole inventate (D’Annunzio è stato infatti onomaturgo, ovvero inventore di parole mai esistite prima in italiano), frutto della sua ‘fantasia linguistica’, ma anche le sue leggendarie doti seduttive, laddove la seduzione è intesa come vita e consacrazione della donna al di sopra di ogni creatura. Nato a Pescara nel 1863, D’Annunzio è una delle voci immortali della letteratura italiana del primo Novecento. Personaggio a tratti folle, trasgressivo e controverso mise a punto, a contatto con l’ambiente culturale della Roma dell’epoca, la sua poetica e la sua particolare visione del mondo, diventando uno dei personaggi di richiamo del panorama letterario italiano (è proprio nella capitale che si impone come ‘cronista mondano’, frequentando i salotti romani e conducendo una vita sfrenata e assai peccaminosa). Dopo un periodo trascorso in Francia, torna in Italia nel 1915 per partecipare alla Grande Guerra e nel 1919 partecipa all’Impresa di Fiume. Muore il 1° marzo del 1938, dopo essersi ritirato, in esilio volontario, in una sontuosa villa di Gardone Riviera (in provincia di Brescia) che lo stesso poeta acquistò ed ampliò dandole il nome di Vittoriale degli Italiani. Per ricordare il Vate e la sua sublime poetica, dunque, ecco una breve selezione dei suoi versi più belli: le poesie d’amore di Gabriele D’Annunzio.
La prima, tra le poesie d’amore più belle di Gabriele D’Annunzio, che vogliamo proporvi è Stringiti a me. Qui il sentimento amoroso è descritto come un sostegno sicuro e condiviso, un vero e proprio patto di lealtà, per cui nessuno dei due amanti si ritroverà mai da solo.
Stringiti a me, abbandonati a me, sicura.
Io non ti mancherò e tu non mi mancherai.
Troveremo, troveremo la verità segreta
su cui il nostro amore potrà riposare per sempre,
immutabile.
Non ti chiudere a me, non soffrire sola,
non nascondermi il tuo tormento!
Parlami, quando il cuore ti si gonfia di pena.
Lasciami sperare che io potrei consolarti.
Nulla sia taciuto fra noi e nulla sia celato.
Oso ricordarti un patto che tu medesima hai posto.
Parlami e ti risponderò sempre senza mentire.
Lascia che io ti aiuti, poiché da te mi viene tanto bene!
Voglio un amore doloroso, lento,
che lento sia come una lenta morte,
e senza fine (voglio che più forte
sie della morte) e senza mutamento.
Voglio che senza tregua in un tormento
occulto sien le nostre anime assorte;
e un mare sia presso a le nostre porte,
solo, che pianga in un silenzio intento.
Voglio che sia la torre alta granito,
ed alta sia così che nel sereno
sembri attingere il grande astro polare.
Voglio un letto di porpora, e trovare
in quell’ombra giacendo su quel seno,
come in fondo a un sepolcro, l’Infinito.
Tra le poesie di Gabriele D’Annunzio (molte delle quali tra le poesie d’amore più belle da dedicare, da Alda Merini a Pablo Neruda) questa è senz’altro la più famosa: strutturata come una sorta di sinfonia (in cui i protagonisti s’identificano con la natura) è il discorso che il Vate fa alla persona amata. L’opera è stata composta nel 1902 e si trova nella raccolta Alcyone, il terzo libro delle Laudi.
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo vólto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L’accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo, e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce dal mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pèsca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.
Sei come un piccolo fiore
tu tieni una boccuccia
un poco, davvero un poco
appassionata
Suvvia, dammelo, dammelo
è come una piccola rosa
dammelo un bacino
dammelo, Cannetella!
Dammelo e pigliatelo
un bacio piccolino
come questa tua boccuccia
che somiglia ad un piccola rosa
un po’, davvero un poco
appassionata.
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