Un momento sportivo storico come la finale tutta italiana degli US Open tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci, vinta dalla tennista brindisina, si è trasformato nel solito polverone di polemiche italiche per il viaggio di Matteo Renzi a New York. L’opposizione ha attaccato la scelta del premier di essere presente a Flushing Meadows, sottolineando come abbia voluto sfruttare l’occasione per darsi visibilità, per farsi grande con le imprese delle due azzurre. In sua difesa si sono schierate le linee renziane della maggioranza: giusto che il Presidente del Consiglio fosse presente in un momento così importante per l’Italia e lo sport italiano. Le polemiche fanno parte del gioco, così come la presenza di Renzi a New York. La politica cerca sempre visibilità e lo sport è il palcoscenico popolare per eccellenza: lo è sempre stato e continuerà ad esserlo.
Alzi la mano chi non ricorda l’immagine di Sandro Pertini con le braccia al cielo alla finale dei Mondiali ’82, le sue foto in aereo con la Coppa del Mondo sul tavolo mentre giocava a carte con il ct Enzo Bearzot, Dino Zoff e Franco Causio. Anche Giorgio Napolitano volle essere in tribuna, accanto ad Angela Merkel nella finale di Berlino 2006 tra Italia e Francia. Che dire della cancelliera tedesca e dei selfie negli spogliatoi con i Campioni del Mondo ai Mondiali in Brasile?
Le personalità politiche hanno sempre usato lo sport e in particolare gli eventi in assoluto più mediatici come Campionati Mondiali di Calcio, le Olimpiadi o la finale di Champions League, quando milioni di persone sono attaccate al video per seguire le imprese degli atleti.
Essere presenti è una cosa “dovuta” per le autorità perché è nello spirito stesso della competizione sportiva moderna, specie se a squadre: una nazionale, quale sia lo sport, rappresenta la Nazione e i suoi leader politici vogliono essere lì dove si compie l’impresa in nome dello Stato.
La capacità di aggregazione dello sport è ciò che lo rende così bello, così vero e così amato: tutti i politici lo sanno e tutti lo usano. Lo facevano gli antichi romani e greci, lo fanno i politici di oggi. L’importante è il motivo per cui lo fanno.
Di questo era consapevole anche Nelson Mandela. Il suo Sudafrica, appena uscito dal regime di apartheid, ospitò nel 1995 i Mondiali di rugby. Mandela era Presidente da un anno in un Paese che era stato espulso da ogni competizione (anche della palla ovale) e dove il rubgy era considerato lo sport dei bianchi. Madiba volle essere lì, prima e dopo la finale contro i campionissimi degli All Blacks allo Stadio Ellis Park di Johannesburg, con la maglia e il cappello degli Springboks mentre consegnava la coppa al capitano François Pienaar. Mandela, con quel gesto, volle lanciare un messaggio, cancellando le divisioni tra bianchi e neri per dar vita a una nuova Rainbow Nation, dove il rugby fosse unione e mai divisione. L’esempio potrà anche sembrare troppo aulico, ma è la potenza dello sport. Che piaccia o no.