Contro la Polizia violenta in Italia si è pensato di applicare delle telecamere sulla divisa dei poliziotti, di quelli impegnati in servizio di ordine pubblico. Inizialmente si partirà con una sperimentazione a Milano e a Roma. In particolare il provvedimento riguarderà i capisquadra dei reparti mobili. Una decisione innovativa, che sembra voler porre rimedio al controllo del modo di azione dei poliziotti stessi, per evitare episodi di violenza o dubbiosi, che generano sempre molte polemiche, specialmente quando si svolgono degli scontri tra Polizia e manifestanti. Si tratterà adesso di applicare delle procedure per la registrazione, per un test che dovrebbe durare sei mesi.
Secondo quanto è emerso dalla volontà del capo della Polizia, Alessandro Pansa, dovrebbero essere usate 150 apparecchiature. Le indosseranno i capisquadra e le riprese coinvolgeranno almeno 1.500 uomini. E’ previsto che, quando si verificano delle situazioni critiche, il funzionario più vicino possa posizionarsi in modo da riuscire a documentare tutto ciò che sta accadendo. Le telecamere che verranno utilizzate hanno una tecnologia digitale e tutti i contenuti verranno riversati in un server protetto, che la magistratura ha la possibilità di visionare in caso di incidenti o per l’accertamento di violazioni delle regole. Gli esperti spiegano che poter documentare ciò che succede in strada è una grande forma di trasparenza, che dovrebbe andare a garanzia di tutti i cittadini. La prova di tutto è stata rappresentata da ciò che è successo allo stadio Olimpico a Roma, quando si è rivelata necessaria una prova dei fatti. Le telecamere potrebbero agire anche come deterrente contro ogni forma di violenza.
Già una sperimentazione era iniziata con l’azione del Sap, uno dei sindacati di Polizia, che aveva distribuito qualche tempo fa dei dispositivi tecnologici, per registrare immagini e voci di quando accade mentre i poliziotti sono in servizio. Il problema è sempre quello dell’applicazione della modalità di forza, che può sconfinare nel suo ricorso in maniera illegittima. Si pensa che in questo modo si possa sopperire in qualche modo a quella mancanza dei codici alfanumerici sui caschi dei poliziotti, che rappresenterebbe il punto culminante di una riforma completa, volta alla garanzia di tutti. Ancora ci sono molti passi da fare, ma già l’inizio dà il via ad un piano che sembra avere intenzioni da non sottovalutare. Non sarebbe il caso di pensare ad una pianificazione mirata, perché non si debba ritornare sempre con l’attualità a questi problemi di ordine pubblico?
I codici identificativi sui caschi dei poliziotti
Dal 2001, anno del G8 di Genova e degli orrori della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, a ogni manifestazione si chiede di avere un codice alfanumerico che possa facilmente identificare gli uomini delle forze di Polizia. A oggi le petizioni, le proposte di legge e i richiami dall’Europa non sono serviti a nulla. L’Italia è uno dei pochi paesi europei che non si è adeguato a una normativa del 2001 sul codice etico delle Polizie. Non solo bastati i feriti e le immagini da guerriglia che puntualmente, a ogni manifestazione, inondano i media: la classe politica ha fatto finta di niente, mentre i sindacati sono divisi e tendono a mantenere lo status quo.
La polemica sui codici identificativi in Italia rimane come una sorta di sotto traccia: in occasioni di manifestazioni e cortei che sfociano in azioni violente, si alza il volume, ci si indigna per i poliziotti violenti, si chiede giustizia. Passata la foga del momento, ritorna il silenzio e la questione rimane nel dimenticatoio. In questo modo diventa difficile anche per le stesse forze di Polizia difendersi dalle accuse di violenza da parte di chi usa il pretesto della singola mela marcia per scagliarsi contro l’intero corpo. Chi sbaglia deve pagare e lo deve non solo alle vittime ma alla stessa divisa che indossa.
Eppure, se l’Italia si fosse adeguata alle direttive Europee, 250 denunce di aggressione e violenza durante il G8 non sarebbero cadute nel vuoto; episodi come quello di Roma o quello delle manifestazioni studentesche dello scorso anno, o le violenze ai cortei No Tav non si sarebbero ripetuti. Il nostro Paese sulla questione sembra davvero fare orecchie da mercante. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano, nel discorso di chiusura del 2013, ha ribadito che la politica nazionale e di governo non intende mettere codici identificativi sui caschi delle forze dell’ordine. “Metterebbero a rischio la sicurezza e l’incolumità dei servitori dello Stato”, la spiegazione del ministro che è poi la stessa usata da chi è contrario.
Lo fanno i sindacati, nello specifico il Silp, che prospetta segnalazioni inventate, vendette, errori solo perché gli agenti sono identificabili; meno dura la posizione del Sap, che ha aperto a una discussione, chiedendo però come contrappasso una norma con reato e arresto in flagranza per i manifestanti a volto coperto. La politica nazionale si è mossa per avviare un procedimento identificativo: due proposte di legge alla Camera (2001 e 2008), un disegno di Legge al Senato del 2009 (la 1711 “Delega al Governo in materia di impiego dell’uniforme e di identificabilità del personale delle Forze di Polizia”), varie iniziative di singoli parlamentari dell’area del centrosinistra (PD e SEL) e del M5S. Infine i numerosi richiami del Parlamento europeo con l’ultimo del 12 dicembre 2012 sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea. All’articolo 192 si legge che l’Unione Europea:
“esprime preoccupazione per il ricorso a una forza sproporzionata da parte della Polizia durante eventi pubblici e manifestazioni nell’UE;
invita gli Stati membri a provvedere affinché il controllo giuridico e democratico delle autorità incaricate dell’applicazione della legge e del loro personale sia rafforzato, l’assunzione di responsabilità sia garantita e l’immunità non venga concessa in Europa, in particolare per i casi di uso sproporzionato della forza e di torture o trattamenti inumani o degradanti;
esorta gli Stati membri a garantire che il personale di Polizia porti un numero identificativo”.
Questo perché esiste una direttiva europea del 2001 che invita gli stati ad adottare il codice etico della Polizia, varato con l’ausilio di giuristi internazionali, per uniformare le varie forze di Polizia a norme fondamentali: si chiede in particolare la limitazione dell’uso della forza solo in casi di stretta necessità, si vietano trattamenti inumani e degradanti e si chiede l’identificazione degli agenti. “Il personale deve essere in condizione di dimostrare il proprio grado e la propria identità professionale”, si legge. Più chiaro di così è difficile, ma l’Italia non ci sente.
Mentre quasi tutti i Paesi dell’UE si sono adeguati, da nord a sud, dalla Svezia alla Grecia, ognuno con sistemi diversi (codici alfanumerici sul casco e/o sulla divisa, targhetta sulla divisa con il cognome, anonimato garantito solo per i gradi più alti), da noi è tutto fermo. Visto che siamo in tema di elezioni europee, sarebbe il caso di ricordare a chi ci governa che non si possono scegliere le leggi da applicare. Non si può essere europei solo quando fa comodo.
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