Il presidente del Senato e il presidente della Camera dei deputati sono, rispettivamente, la seconda e la terza carica dello Stato. Si tratta di due figure che, nelle loro camere di appartenenza, svolgono un ruolo di garanzia e di terzietà sovrintendendo in maniera imparziale ai lavori parlamentari. Ma la loro importanza istituzionale e politica è come vedremo molto più significativa di quanto non venga riportato nei manuali di Diritto Pubblico. Scopriremo anche perché i partiti si danno battaglia per piazzare un proprio membro alla presidenza di uno dei due rami del parlamento. Mentre scriviamo sono in corso le votazioni per l’elezione dei presidenti dopo le elezioni del 4 marzo 2018.
I meccanismi per le elezioni dei presidenti di Camera e Senato sono piuttosto complessi e le loro funzioni e attribuzioni sono riportate in maniera piuttosto sintetica e asettica sul sito della Camera dei deputati e sul sito del Senato. A leggere quelle poche righe sembra che i due presidenti si occupino solo di fare da arbitri e da organizzatori dei lavori parlamentari. In realtà c’è molto di più. I due presidenti rappresentano nella loro persona le loro camere di appartenenza, ne organizzano il lavoro e vigilano affinché il calendario venga rispettato. Anche se vengono da ruoli politici (capi o esponenti di partito) una volta assunta l’altissima carica smettono (spesso solo in via teorica) di essere soggetti politici per diventare soggetti istituzionali super partes.
In Aula i presidenti organizzano le votazioni, danno e tolgono la parola, moderano le discussioni, riprendono i parlamentari ed espellono i più indisciplinati, stabiliscono l’ordine delle votazioni e ne annunciano il risultato.
Inoltre nominano i componenti di importanti organi come il consiglio d’amministrazione della Rai e la dirigenza delle varie Autorità di garanzia.
Fuori dall’Aula i presidenti calendarizzano i lavori parlamentari e incontrano i rappresentanti dei vari gruppi per importanti attività come la decisione di un regolamento e l’approvazione dei bilanci delle camere.
Il presidente della Repubblica supplente
Il presidente del Senato, dicevamo, è la seconda carica dello Stato. Questo significa che fa le veci del presidente della Repubblica in tutte le occasioni in cui questi sia impossibilitato. La funzione di presidente della Repubblica supplente è esplicitamente sancita dalla Costituzione all’articolo 86. Tuttavia si tratta di supplenze di breve durata e durante le quali il presidente supplente, per rispetto istituzionale, evita di mettere in atto tutte le attribuzioni proprie della carica del presidente della Repubblica. Gli ultimi due presidenti della Repubblica supplenti sono stati Pietro Grasso e Renato Schifani. Il primo ha fatto da supplente per 21 giorni fra la fine del mandato di Napolitano e l’inizio del mandato di Mattarella, il secondo ha fatto da supplente al posto di Napolitano nel corso di tre visite di Stato in Corea del Sud, Giappone e Cina.
Questione di prestigio
Fin qui non abbiamo detto nulla di nuovo, ma ora aggiungiamo qualcosa che difficilmente si trova nei manuali di Diritto. Ogni qualvolta un partito riesca a piazzare un proprio rappresentante sulla poltrona di presidente incassa un bonus in termini di prestigio istituzionale e politico. Che si traduce in concreto in una maggiore visibilità elettorale: la stampa dedica sempre grande attenzione alle dichiarazioni dei presidenti di Camera e Senato. Per utilizzare un linguaggio moderno, i due presidenti sono dei top influencer che portano visibilità ai loro partiti di appartenenza e che possono spostare l’attenzione dell’opinione pubblica su un tema piuttosto che su di un altro.
Il calendario del lavori parlamentari
I presidenti di Camera e Senato stabiliscono il calendario dei lavori parlamentari. Si tratta di un ruolo strategico in un parlamento come quello italiano i cui membri lavorano solo due giorni e mezzo a settimana, dal martedì pomeriggio al giovedì compresi. Calendarizzare una votazione sgradita al venerdì pomeriggio significa, per esempio, aumentare le probabilità che molti parlamentari si assentino e non la votino. Ma non solo: mettere in calendario una certa votazione significa dirigere il parlamento verso una direzione precisa. Dopo le elezioni del 4 marzo 2018 il MoVimento 5 Stelle ha puntato espressamente alla presidenza della Camera per mettere in calendario l’abolizione dei vitalizi parlamentari, vecchio cavallo di battaglia dei grillini.
Manovre anti ostruzionismo
Quando un partito intende fare ostruzionismo contro una riforma presenta una valanga di emendamenti. Per esempio in tempi recenti la Lega ha presentato circa 50mila emendamenti per affossare la votazione sullo Ius Soli. I presidenti di Camera e Senato dispongono di alcune armi per contrastare l’ostruzionismo:
- il Canguro: è una prassi che permette di raggruppare gli emendamenti dal contenuto analogo e se viene approvato o bocciato il primo vengono approvati o bocciati tutti gli altri;
- la Tagliola: ciascun gruppo riceve un tempo limitato per i propri interventi, terminato il proprio monte ore nessuno può più parlare ma si va obbligatoriamente al voto;
- la Ghigliottina: si utilizza solo per i decreti e consiste in una data e un orario perentori per andare a votazione, oltre quella scadenza non si può più discutere.
I due presidenti sono figure super partes, ma in linea teorica se volessero contribuire ad affossare o a far passare una riforma potrebbero scegliere se applicare o meno queste prassi.
Disinnescare un rivale
Le elezioni si vincono contro gli avversari, ma poi per governare bisogna occuparsi anche degli alleati. Piazzare un possibile rivale su una poltrona istituzionale significa potenzialmente disinnescare le sue velleità politiche. Erano queste probabilmente le (vane) intenzioni del 71enne Silvio Berlusconi quando la coalizione di centrodestra vinse nel 2008. Berlusconi considerava Fini un rivale, oltre che un alleato, e fu felicissimo di vedergli lasciare la presidenza di Alleanza Nazionale per ottenere in cambio la poltrona più autorevole della Camera dei deputati. Purtroppo per l’ex Cav le cose andarono diversamente e Fini divenne il suo più fiero oppositore. Il culmine dello scontro si ebbe nell’aprile del 2010, quando fra Berlusconi e Fini volarono gli stracci. Il “Che fai mi cacci” di Gianfranco Fini è entrato nella storia della politica italiana.
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