Sono di una manciata di ore fa le notizie provenienti dalla Norvegia, che annuncerebbero un netto crollo per gli investimenti petroliferi nel paese scandinavo – un calo stimato nel triennio 2014-2017 intorno al 22% – . Dalla Direzione norvegese del petrolio, un ente pubblico delegato alla gestione delle risorse petrolifere, fanno sapere che gli investimenti tenderanno gradualmente a diminuire, passando dai 172 miliardi di corone (19,3 miliardi di euro) del 2014 ai 135 miliardi del 2017. Così Bente Nyland, il responsabile della Direzione del petrolio: “Se il prezzo del petrolio dovesse restare intorno ai 50-60 dollari al barile, ciò comporterebbe un ulteriore riduzione degli investimenti”. La caduta inarrestabile incomincia a falcidiare i primi posti di lavoro nel Mare del Nord. La British Petroleum ha annunciato nuovi tagli per una netta revisione del numero di personale. Già a dicembre la compagnia aveva rilasciato un’importante dichiarazione, che riportava in una nota il rischio di un troncamento nella gestione per circa un miliardo di dollari. Prossimamente, dunque resteranno a casa 300 lavoratori tra personale a terra (100) e uomini in mare (200). Gli esperti del settore già lamentano il rischio di un taglio pari a 15000 operai, che se veritiero rappresenterebbe il collasso economico per l’intera cittadina scozzese di Aberdeen e per l’intero settore petrolifero. Intanto, Schlumberger, il numero uno al mondo nell’erogazione dei servizi petroliferi, dal quartier generale sede di Houston annuncia una netta sforbiciata: 9000 posti di lavoro sarebbero a rischio, pari al 7% della propria forza lavoro.
Politiche di disaccordo
Se i consumatori ai distributori esultano, le prospettive per le economie internazionali non sono certamente rosee, a discapito di quei governanti orgogliosi dei propri giacimenti. Il prezzo del petrolio è sceso di oltre il 65% da giugno, quando si attestava sui 115 dollari al barile. Oggi siamo sotto i 50. L’Organizzazione dei Paesi esportatori di greggio -l’OPEC- non è riuscita a raggiungere veri accordi sulla produzione e sul prezzo. La problematica è determinata dalla domanda, e la domanda allo stesso modo è dettata in parte dalla domanda reale ed in parte dalle aspettative dei signori locali. Che sia estate o inverno, l’offerta deve comunque rimanere alta. La questione concreta attiene a dinamiche legate al continuo investimento, intrecciate ad una condizione di un alto prezzo. Molte aziende americane, che avevano puntato sulla produzione di shale oil, allo scopo di lenire le forti influenze esterne provenienti dallo stesso cartello dell’Organizzazione di esportatori, hanno difatti dovuto fare i conti con l’incognita dei prezzi in caduta libera. E quegli stessi Paesi hanno poi dovuto rimediare al disastro finanziario incombente: alcune economie hanno regolato i propri budget economici al costo del barile, così il Venezuela (100 dollari), la Russia (105), e a seguire l’Iran (130). Il ministro saudita dell’Economia, Ali Al-Naimi, in un comunicato replica: “ Non abbiamo intenzione di diminuire la nostra produzione. Che il prezzo scenda a 20, 40, 50 o 60 dollari per noi non ha importanza”.
Le regole per una nuova guerra
Ora come ora quattro dinamiche stanno influenzando il quadro internazionale: la domanda che resta bassa a causa della debole attività economica, della maggiore efficienza e del richiamo crescente verso altri combustibili; il rischio geopolitico che, all’interno di una vasta area tra l’Africa ed il Medio Oriente, tra la Libia e l’Iraq, ha fatto si che alcuni canali di distribuzione fossero potenziati a discapito di altri; la riserva degli Stati Uniti, oggi primo produttore al mondo, che, diventata enorme, abbraccia l’intera domanda interna; in ultimo, i Sauditi e i loro alleati del Golfo che democraticamente hanno deciso di non sacrificare la propria quota di mercato per ripristinare il prezzo. L’Arabia Saudita produce oggi circa 10 milioni di barili ogni giorno, un terzo del totale OPEC. Il principale effetto della frammentazione globale è un inevitabile disastro economico. Il costo della disorganizzazione si abbatterà sui frackers americani, che hanno pesantemente investito nella produzione di petrolio di scisto, o le compagnie petrolifere occidentali impegnate in progetti ad alto costo per perforazioni nelle profonde acque dell’Artico. Queste traumatiche collisioni, a confronto di ciò che accadrà nei regimi che dipendono da un alto costo del petrolio da pagare per avventure esterofile o costosi programmi sociali, saranno da considerarsi delle semplici escoriazioni dopo una tragica battuta d’arresto. La Russia, già colpita dalle sanzioni occidentali dopo la sua ingerenza con l’Ucraina, e l’Iran, che sconta il prezzo della propria strenua amicizia al regime di Assad, avranno soltanto da sperare. Al Cremlino un cane zoppo potrebbe mordere.
La caduta e i riflessi italiani
Ciò che sta accadendo,in maniera del tutto speculare è fortemente simile alla realtà di una trentina di anni fa, quando nel biennio 1985-86 il prezzo dell’oro nero “che move il Sole e l’altre stelle” si accartocciò su sé stesso, in una storica torsione – dai 30 ai 10 dollari al barile -. Il prezzo odierno, seppure indice di negatività dell’intera economia internazionale, degli squilibri geopolitici e di mancati accordi, allo stesso modo – sembra strano – si riflette positivamente sui consumatori italiani, che oggi festeggiano, e domani pure. Oggi la benzina, è un dato di fatto costa meno –sotto 1,5€ con un calo che in sei mesi è di circa il 16%– e se l’andazzo rimane tale tra un po’ avranno flessioni anche i costi dei derivati. Che possa fungere da volano economico per un Paese importatore? Aspettiamo i dati reali, che acquisteranno una reale autorevolezza nella lettura delle bollette per il conto del consumo energetico.
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