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Sono colpevole, lo ammetto. Ho fatto un’intervista nell’autunno del 2015 e l’ho tenuta per molto, forse troppo, tempo chiusa in un cassetto. Un giornalista non dovrebbe mai conservare un servizio tutto questo tempo, per tirarlo fuori al momento più opportuno. La verità è che speravo di poterla cestinare quell’intervista: non perché non fosse interessante, ma perché non c’era più bisogno di pubblicarla. Ho sperato che, per una volta, le cose potessero cambiare e noi, tutti, potessimo essere meno colpevoli. Ora la fine è (quasi) arrivata e la situazione è rimasta drammaticamente uguale.
«Il processo Aemilia è molto importante, perché per la prima volta si processa tutta la ‘ndrangheta in Emilia Romagna e non solo una parte. È il maxi processo alla ‘ndrangheta e, pertanto, per la prima volta c’è la possibilità di far capire ai cittadini come si comporta la ‘ndrangheta in quel territorio, quali affari conclude e come gestisce il potere», mi spiegò Giovanni Tizian, giornalista da anni sotto scorta proprio per la sua attività di denuncia di infiltrazioni mafiose nel Nord Italia.
Ma poi dovette aggiungere: «La stampa nazionale non ha avuto molta attenzione rispetto a questo processo: non ne scrive, non ne parla. Forse perché è letto come uno dei tanti fatti di mafia che succedono in questo in Paese».
È questo che, dallo scorso autunno a oggi, speravo cambiasse. Da cittadino, prima ancora che da giornalista, speravo che i giornali, tutti, iniziassero ad occuparsi di questo “fatto di mafia”, come lo definisce Tizian. E, così, i cittadini potessero essere informati, consapevoli. Sì, perché questo è quello che dovremmo fare noi giornalisti. E, invece, il 22 aprile è attesa la sentenza di primo grado e ancora, del processo Aemilia, nessuno ne parla.
Se, però, «negli anni ’70 la sottovalutazione, mista a indifferenza totale, è prevalsa e quindi il problema della ‘ndragnheta in Emilia non ce lo si poneva neanche. Oggi – spiega Tizian – si aggiunge anche la complicità: ci sono quindi gli indifferenti, quelli che non conoscono, ma ci sono anche i complici. Complici che parlano emiliano e che proteggono l’organizzazione. E quindi c’è anche una negazione interessata, che è quella dei complici».
Ma anche non volendo pensare a tanto, «il problema – conclude Giovanni Tizian – è che se consideriamo il fenomeno mafioso una cosa normale, vuol dire che siamo un Paese proprio senza speranza».
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