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C’era una volta un tempo in cui l’inglese veniva lodato per la capacità di sintesi e l’italiano era la lingua della poesia, della metafora e del bello. Oggi il mercato del lavoro sembra aver capovolto questo rapporto di forza: è la lingua inglese ad essere utilizzata per abbellire un concetto… o una professione. Avete notato che gli annunci di lavoro non presentano più qualifiche professionali in italiano? E’ tutto un fiorire di Account, Executive, Specialist, titoli che fanno nascere qualche dubbio. Le domande sono essenzialmente due: cosa nascondono questi nomi fantasiosi? E, soprattutto, quali sono i motivi che spingono le aziende nostrane ad abdicare alla lingua sovrana?
A volte dietro la scelta di utilizzare i nomi in inglese si nasconde la necessità di equiparare il professionista italiano a quelli stranieri, in un mercato globale che ha scelto l’inglese come lingua elettiva. Ecco perché anche da noi si trovano i Manager, il CEO, il reparto HR (risorse umane) e quello R&D (ricerca e sviluppo). D’altra parte l’invasione delle qualifiche professionali in inglese non è prerogativa italiana, visto che la stessa cosa sta accadendo più o meno anche nel resto del mondo. Il problema del mercato nostrano, semmai, è che è preda di una overdose di ‘fancy names’, come direbbero negli Stati Uniti. Cosa vuol dire? Incartare realtà vecchie come il mondo con una confezione rilucente per poterle vendere meglio. Secondo voi funziona meglio un annuncio per una posizione di panettiere o una come bakery designer? Nella sostanza sono la stessa cosa.
I motivi
Ecco il segreto oscuro di un mercato che opera all’insegna della disonestà linguistica, promettendo ciò che non esiste. Le aziende non si ritrovano così a riscrivere gli organigrammi non solo per equiparare le qualifiche professionali a quelle che si trovano all’estero, ma anche per attirare la domanda.
Perché? Per due motivi:
1) riuscire a rendere più appetibili mestieri che nessuno vuole più fare;
2) dare rilievo a professioni male caratterizzate e spesso anche mal pagate.
Del primo caso fanno parte, ad esempio, il bakery designer, il cake designer (pasticciere), l’hair stylist (parrucchiera), l’office manager (metà tra receptionist e segretaria), l’accommodation manager (quello che una volta era il portiere d’albergo), ma anche l’hospitality account (che è il vecchio stagista che prepara caffè e compra i croissant) e il logistic executive account (il magazziniere). In America, poi, è un fiorire di ruoli assurdi come il Customer Experience Enhancement Consultant (addetto alle vendite di un negozio) e il Media Distribution Officer (colui che distribuisce giornali e posta negli uffici).
Questo ci porta al secondo motivo, ovvero nascondere mestieri poco definiti dietro belle parole per abbellire la realtà: così l’impiegato diventa Account, l’apprendista diventa Executive, lo stagista diventa Trainee, l’addetto stampa diventa Press Office & Communication Manager, il giornalista online diventa Web Content Manager, chi lavora con i nuovi media si trasforma in Social Media & Web Specialist. Sono soprattutto le nuove professioni legate al web a soffrire di una schizofrenia lessicale: nessuno riesce a definire per bene il suo lavoro perché neanche la legge lo definisce, senza contare il totale disinteresse dei sindacati. Questo crea un circolo vizioso fatto di nomi altisonanti che nascondo trattamenti umilianti, con contratti ballerini e retribuzioni da Terzo Mondo. Non vogliamo passare per i soliti passatisti, ma non sarebbe meglio rinunciare ai nomi gloriosi in cambio di un rispetto professionale che oggi manca? O non ci piace più sentir parlare di operaio, impiegato, dipendente pubblico, maestro di scuola elementare, meccanico ed elettricista?