Quentin Tarantino oggi compie 60 anni: fermo restando che un talento come il suo avrebbe bisogno di essere celebrato ogni giorno, oggi più che mai merita diverse considerazioni.
La carriera di Quentin Tarantino è stata segnata da tantissimi successi planetari. Le Iene è stato il primo, seguito da Pulp Fiction, Kill Bill e tantissimi altri, divenuti ormai iconici. Oggi il regista e sceneggiatore compie 60 anni: ecco alcuni dei suoi successi e dei tratti distintivi di cui si parla troppo poco.
Due Oscar vinti (più decine di nomination), tre Golden Globe, due BAFTA, un premio César, due nomination ai premi Nastri d’Argento: di chi stiamo parlando? Di Quentin Tarantino ovviamente, che oggi compie 60 anni.
Sia chiaro: non era affatto necessaria la stella sulla Hollywood Walk of Fame (conferitagli il 21 dicembre del 2015, specifichiamo solo per onore di cronaca), per farci comprendere che il regista e sceneggiatore è una vera stella, nel senso letterale del termine. Dai tempi de Le Iene – pellicola che risale al ’92 – il suo lavoro, sempre frutto di una fusione di generi e stili, tanto da avergli fatto meritare l’appellativo di regista DJ, è stato talmente grande – nel senso letterale del termine anche questa volta – da renderlo agli occhi di moltissimi – tra cui il suo collega e storico del cinema Peter Bogdanovich – “il regista più influente della sua generazione” (ma non solo della sua).
Quentin Tarantino ha sempre avuto una mente particolare, aperta verso il mondo, ma anche paradossalmente “chiusa” verso il concetto di paura. Se volessimo soffermarci ad analizzare il significato che lui stesso dà a questa parola – troppo spesso esasperata all’ennesima potenza e utilizzata impropriamente – capiremmo che per lui non ha nulla a che fare con quello che convenzionalmente la gente crede “spaventoso”. Per lui evidentemente – lo deduciamo da alcune sue opere e dichiarazioni, non vogliamo affatto farci portatori di legge tarantiniana – non ha nulla a che fare con ciò che è macabro: per lui il terrore nasce da ciò che ognuno ha dentro di sé, dalle zone più recondite del proprio io e spesso si nasconde proprio dietro quello che non crediamo possa essere pericoloso, ma che in realtà nasconde delle insidie.
Parlando di lui nello specifico, sappiamo che l’unico film che gli ha fatto davvero paura è stato Bambi, che vide al cinema con il patrigno quando aveva soli sei anni. Dobbiamo commentare? No, ma visto il suo pregresso – la madre era rimasta incinta di lui quando aveva soli 16 anni, il padre lo aveva abbandonato praticamente ancora prima che nascesse – potremmo pensare che forse – ma solo forse – quella paura nasce da un dolore insabbiato che un bambino così piccolo non può capire di provare.
Del resto, come ha raccontato lui stesso nel libro Cinema speculation, quando aveva solo sette anni iniziò ad andare al cinema con la madre e a vedere film non destinati ai bambini. Probabilmente dopo il trauma subito dal succitato Bambi, non volle più saperne nulla di flm per bambini e decise di darsi alla fase adulta-precoce. Se però consideriamo che proprio da quel periodo nasce la sua passione per il cinema, possiamo dire che è stato decisamente meglio così per tutti.
Sia chiaro, non definite Quentin Tarantino solo un regista, perché sarebbe riduttivo: è anche sceneggiatore (Una vita al massimo di Tony Scott, Natural Born Killers di Oliver Stone, Dal Tramonto all’Alba di Robert Rodriguez sono alcuni esempi), produttore. Ma non solo, perché ha ricoperto piccoli ruoli in moltissimi suoi film, ma anche in altri. Un esempio è senza dubbio Dal Tramonto all’Alba, in cui ricopre il ruolo di uno dei famigerati fratelli Gecko.
Detto ciò, in onore del suo 60esimo compleanno, meritano un’attenzione particolare sia alcuni suoi successi, che altri film che non sono stati particolarmente acclamati dalla critica, ma che ci hanno mostrato alcuni suoi lati degni di nota.
C’è da dire che c’è una zona d’ombra nei film di Tarantino, che definiamo appositamente così proprio perché in effetti è troppo poco considerata: in alcune pellicole che portano la sua firma, quello che conferisce allo spettatore uno strano (e forse malsano) senso di goduria è la sua capacità di ribaltare ogni situazione, rendendo spesso la vittima carnefice a sua volta.
Faremo un paio di esempi per capirci meglio, ma attenzione, se aveste intenzione di vedere uno di questi film, saltate questo pezzo, perché stiamo per spoilerare il finale: parliamo di Grindhouse (A prova di morte) e Hostel II (che stranamente è degno del primo, cosa che difficilmente capita con i sequel), di cui è stato rispettivamente regista, sceneggiatore e produttore e solo produttore esecutivo.
Parliamo del primo film (che trae ispirazione dalle pellicole degli anni ’70, siccome fa riferimento al nome con cui venivano chiamate negli Usa le sale cinematografiche in cui venivano proiettati i cosiddetti “film d’exploitation”, cioè quelli caratterizzati da sesso e violenza). La trama è semplice: Stuntman Mike – interpretato da Kurt Russel – uccide le sue vittime a bordo della sua auto. Ebbene, dopo aver ucciso una giovane ragazza indifesa, rea di avergli chiesto solo un passaggio, torna all’attacco e questa volta prende di mira quattro donne: Abernathy, truccatrice e hairstylist, Lee, attrice, Kim e Zoë, due stuntwoman. Le quattro – estremamente spericolate – decidono di eseguire un numero: una ragazza – che sarà Zoë – deve distendersi sul cofano dell’auto, in corsa, “protetta” (per modo di dire) solo da due cinture.
Qui subentra Mike, che inizia a colpirle con la sua auto, tentando di mandarle fuori strada. A un tratto ci riesce e così la giovane donna precipita giù dall’auto e le amiche la credono morta. Lì la situazione si ribalta completamente: da vittime tutte loro diventano carnefici. Iniziano così a inseguire a loro volta l’ex Stuntman, finché non lo trovano a lo uccidono.
Una situazione analoga avviene alla fine di Hostel II: la trama è molto simile al suo predecessore, esclusa la presenza di donne (nel primo film erano tutti uomini i protagonisti). Tre studentesse americane – residenti a Roma – Beth, Lorna e Whitney, decidono di partire per Praga. Mentre sono sul treno incontrano una conoscente che le dissuade dal raggiungere la città e le invita con lei in un ostello in Slovacchia, con la promessa che avrebbero raggiunto una sorgente termale paradisiaca. Le tre accettano e lì inizia l’incubo.
Esattamente com’era accaduto nel primo capitolo della pellicola, arrivate a destinazione, dopo qualche ora spensierata, capiranno quasi subito che in realtà sono prede di perfidi uomini d’affari statunitensi, tutti ricchissimi, che pagano per poter torturare e uccidere le loro vittime.
Delle tre ragazze, due muoiono (Lorna e Whitney), mentre alla fine la terza, Beth, riesce a ribaltare la situazione: potendo contare sull’eredità della madre – che le aveva lasciato una somma più che ingente – sa di avere un capitale abbastanza alto per poter accedere alla Confraternita e alla fine riesce a fare fuori l’uomo che stava tentando di ucciderla (la scena finale è da vedere, non può essere raccontata).
Ebbene, tutto questo per dire che questa propensione di Tarantino a mostrare sempre il lato più forte delle vittime (non tutte, solo alcune, è chiaro) e a renderle capaci di ribaltare ogni situazione, anche quelle più estreme, è un grande insegnamento di vita: chiunque può prendere in mano la sua vita e farne ciò che vuole. Anche chi apparentemente sembra fragile ha una forza insita che aspetta solo di essere tirata fuori.
Andando più a fondo nel curriculum di Quentin Tarantino, poi, possiamo trovare altri segni distintivi del suo operato (questi decisamente più discussi tra l’altro). In primis non possiamo non citare la sua volontà di comparire nei suoi film, anche se spesso si ritaglia solo parti piccolissime (ad esempio in Le Iene ricopre il ruolo di Mr. Brown, uno dei componenti della banda). Restando su questo film – quello che, come abbiamo anticipato, ne consacrò il successo planetario esattamente trent’anni fa – qui troviamo scene di violenza crude a più non posso, dialoghi surreali, musica diegetica, salti temporali, lunghi piano sequenza: anche questi sono alcuni dei tratti distintivi del regista, che lo hanno reso immortale davvero.
Abbiamo già accennato qualcosa sui premi che ha vinto nel corso degli anni, ma non è neanche troppo su questo che ci vogliamo soffermare, perché il suo racconto merita di più. Non è solo quello che ha fatto e che gli è stato riconosciuto a essere degno di nota: lo è anche molto di quello che non è stato osservato in mondovisione (per svariati motivi), ma che lo ha reso comunque unico nel suo genere. Non tutti i suoi film, almeno inizialmente, sono stati un vero successo.
Un esempio? Il succitato Grinhouse, nato come “spettacolo doppio” (accanto a Planet Terror di Robert Rodriguez). Negli Stati Uniti fu un flop, tanto che poi la Dimension Films decise di distribuire le pellicole in due parti divise (e Tarantino al festival di Cannes 2007 decise di proiettarlo in una versione inedita che conteneva più di venti minuti aggiuntivi). Eppure anche questi presunti insuccessi hanno contribuito a renderlo iconico e un punto di riferimento in tutto il mondo: la sua “mano” è troppo riconoscibile perché non sia così.
Pare che nell’autunno di quest’anno Tarantino tornerà al cinema e quello sarà il suo ultimo progetto cinematografico. Dovrebbe intitolarsi The Movie Critic, dovrebbe essere ambientato verso la fine degli anni ’70 ed essere basato sulla storia vera di Pauline Kael. Del resto, la critica cinematografica e giornalista del New Yorker, morta nel 2001, è sempre stata molto apprezzata da Quentin, tanto da essere citata spesso in Cinema Speculation. A quanto pare a interpretarla sarà Cate Blanchett (ma non c’è nulla di certo) e la pellicola potrebbe uscire nelle sale nel 2024 (ma anche su questo punto nulla è ancora stabilito).
Non ci resta quindi che aspettare, fermo restando che probabilmente nessuno sarà contento di sapere che quello sarà l’ultimo film di Tarantino.
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