La raccolta dei vestiti usati nei cassonetti gialli si è ormai consolidata come un vero e proprio business milionario, spesso gestito dalla criminalità organizzata. Quello che nasce come un obbligo di legge, regolato dal decreto sullo smaltimento dei rifiuti tessili (perché tali sono per la legge italiana i vestiti che finiscono nella spazzatura) e che si è trasformato in un gesto caritatevole a vantaggio dei più poveri grazie alla rete della solidarietà, oggi è una delle voci di profitto più importanti del potere economico mafioso. L’ultimo caso arriva da Prato e lo racconta un’inchiesta de L’Espresso: secondo la Direzione nazionale antimafia, il clan Birra-Iacomino “detiene il monopolio del commercio di stracci, acquistano gli indumenti raccolti in Italia e nel Nord Europa e li rivendono soprattutto in Tunisia“, racconta nel suo articolo Veronica Ulivieri. Il giro di affari è enorme, ma come è stato possibile che un gesto caritatevole ed ecologico si sia trasformato in un lucroso affare per le mafie?
Il caso che più ha fatto rumore a livello mediatico è legato alle indagini su Mafia Capitale del 2015 e il ruolo di Salvatore Buzzi, presente con le sue cooperative anche nel settore della raccolta degli abiti usati. Nella sola Roma si contano 1800 cassonetti distribuiti sul territorio: secondo uno studio INSPRA – l’Istituto Superiore per Protezione e la Ricerca Ambientale – la raccolta degli stracci nella Capitale vale oltre 2 milioni di euro.
Buzzi e le cooperative romane sono solo un aspetto della vicenda. La Dda di Firenze eseguì i primi arresti per il traffico di vestiti usati nel pratese gestito dal clan Birra-Iacomino di Ercolano già nel 2011. Nel 2012 l’operazione “Panni Sporchi” del Corpo Forestale dello Stato di Potenza portò all’arresto di 57 persone e 15 funzionari comunali per un traffico illecito di indumenti usati organizzato tra Calabria, Basilicata, Puglia e Abruzzo, per un guadagno di alcuni milioni di euro l’anno. Gli esempi sono tanti, ma come nasce il traffico di abiti usati?
Dai cassonetti gialli alle mafie
Tutto parte dalla normativa in materia di rifiuti speciali – IV parte del D.Lgs. 152/06 e s.m.i. – che regolamenta la raccolta differenziata dell’abbigliamento e dei prodotti tessili. Classificato come rifiuto urbano, il materiale deve essere raccolto negli appositi cassonetti gialli distribuiti sul territorio comunale per poi essere smaltiti. È dunque il Comune che gestisce la prima parte dell’iter, cioè la raccolta.
La seconda parte è quella dello smaltimento ed è qui che le cose si complicano. Gli abiti e i rifiuti tessili devono essere sottoposti a particolari processi per il loro smaltimento, ma buttare via abiti o tessuti ancora in buono stato solo perché fuori moda o vecchi, a fronte della povertà nel mondo, sembra un affronto.
Così, gli abiti possono essere riutilizzati e ridistribuiti a chi ne ha più bisogno, in Italia o all’estero. In questa fase i Comuni appaltano lo smaltimento ad aziende private, cooperative, onlus e altri soggetti che si occupano di gestire il procedimento piuttosto complesso.
Gli operatori raccolgono gli abiti dai cassonetti e li vendono a ditte di stoccaggio per una media che va da 20 a 30 centesimi a pezzo. A quel punto, gli abiti vengono prima selezionati (se in condizioni da poter essere riutilizzati o da smaltire) e poi igienizzati con un procedimento gestito con appositi macchinari e certificato.
È a questo livello che le mafie entrano in gioco, gestendo un vero e proprio business milionario. Tramite società di comodo, intermediari o finte onlus, i clan prendono in carico gli abiti dai cassonetti gialli e li rivendono, spesso all’estero (Tunisia e Paesi dell’Est le mete predilette) ma anche in Italia nei mercati abusivi, senza alcuna sanificazione o controllo e con guadagni illeciti enormi.
I dati del businness degli abiti usati
La criminalità, in special modo la camorra, fa dei soldi facili, anzi facilissimi, con i vestiti usati. Secondo varie fonti investigative, il giro d’affari è di circa 200 milioni di euro, grazie alle 110mila tonnellate di vestiti raccolte mediamente ogni anno.
Stiamo parlando di cifre in difetto, come sempre accade, ma già solo queste ci danno un’idea della montagna di soldi che si possono fare con la raccolta degli stracci e dei vestiti usati.
Secondo uno studio Ispra-Altroconsumo del 2015, solo il 10% dei vestiti gettati nei cassonetti arriva in discarica: il resto viene o riciclato come tessuto (tra il 20 e il 30% del totale) oppure riutilizzato come donazione per i poveri in Italia e all’estero.
La mole di abiti e tessuti da usare in maniera illegale è enorme: i clan o gli imprenditori conniventi e criminali mettono le mani su una grande quantità di merce a costo quasi nullo, rivendendola all’estero o in Italia in mercati abusivi con guadagni a sei cifre.
Donare e riciclare in sicurezza si può
Eppure, il settore ha una parte sana che continua da anni a fare il proprio lavoro, donando abiti ai più poveri, riciclando tessuti e vestiti e finanziando opere in loco a favore dei più deboli. Caritas, Humana e molte altre onlus certificate hanno una filiera trasparente che permette di sapere che fine fanno i vestiti nei cassonetti gialli.
Chi dona i propri vestiti – perché nella sostanza si concretizza una donazione – non conosce il destinatario ma solo l’intermediario: cosa fare allora per essere sicuri di non alimentare le ecomafie e i clan con i nostri abiti usati?
Si deve partire dallo studio del cassonetto. C’è un numero di telefono, un’indirizzo fisico dell’azienda o del gestore del servizio, l’indirizzo web? Se sì, basta controllare, chiamando direttamente o consultando il sito.
Se i dubbi persistono perché il cassonetto non riporta con chiarezza questi dati, è meglio chiamare il Comune per sapere a chi è stato appaltato quel dato cassonetto e, nel caso, segnalarlo. Piccoli accorgimenti che possono fare la differenza per noi e per chi ha bisogno davvero.
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