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La rapina di via della Spiga a Milano ha riportato alla memoria alcuni dei colpi storici messi a segno negli anni passati. Il più celebre è quello di via Osoppo, sempre nel capoluogo lombardo, quando sette uomini armati e mascherati rapinarono un furgone portavalori dell’allora Banca Popolare in quella che venne raccontata dai giornali dell’epoca come “la più sensazionale rapina che mai la cronaca milanese abbia registrato”. La storia ha però visto anche rapine violente, tristemente entrate nella memoria: Vallanzasca, la Banda della Uno Bianca, della Magliana. Commandi di stampo paramilitare, organizzazioni criminali che hanno seminato il terrore lungo lo Stivale.
Nel corso degli anni la criminalità legata al mondo delle rapine ha subito un’evoluzione violenta, dai cosiddetti “ladri gentiluomini” ad assassini senza scrupoli. Personaggi entrati nella leggenda, capaci di organizzare grandi colpi senza sparare un colpo hanno lasciato il posto a criminali che dell’uso delle armi e della violenza hanno fatto la loro firma.
La rapina di via Osoppo: Ugo Ciappina e le Tute blu
Il 27 febbraio 1958 via Osoppo a Milano divenne teatro di una rapina passata alla storia. Sette uomini su quattro auto bloccarono la via a un furgone della Banca Popolare. A bordo con l’autista e il commesso un poliziotto armato di mitra: una prima auto tagliò la strada, un secondo lo prese di lato, bloccandolo. Un membro della banda a quel punto prese il mitra dalle mani del poliziotto, tramortito e ferito da una scheggia di vetro, mentre gli altri svaligiarono il furgone, dandosi alla fuga su una Giulietta.
Per la prima volta una banda organizzata, vestita con le tute blu degli operai, mise a segno un colpo spettacolare, usando le auto, nuove protagoniste dell’Italia del boom. A capo Ugo Ciappina, ex partigiano e ladro da tempo che aveva già fatto parte della Banda Dovunque, chiamata così per per i numerosi colpi realizzati nel Nord Italia. La banda di via Osoppo venne sgominata grazie alle indagini del reparto mobile, capitanata da Paolo Zamparelli a cui si affiancò il commissario Mario Nardone. Ciappina e gli altri membri uscirono dal carcere nel 1974 e in seguito venne accusato e poi assolto per altre due grandi rapine tra cui il “colpo grosso” del 1984 in piazza Diaz a Milano, alla sede della Cariplo dove i ladri riuscirono a entrare da un tombino, bucando muri e la cassaforte della banca.
Luciano Lutring solista del mitra
Nella schiera dei “ladri gentiluomini” un posto di rilievo merita Luciano Lutring, conosciuto come “il solista del mitra” per la sua abitudine di nascondere l’arma nella custodia di un violino. Autore di circa 500 rapine a banche e negozi tra gli anni Sessanta e Settanta, non solo in Italia, per un ammontare che lui stesso calcolò trenta miliardi di lire, divenne famoso non tanto per la tecnica ma per lo stile di vita lussuoso sfrenato, fatto di grandi alberghi, donne e auto. Ricercato in Italia e oltre le Alpi dove fu arrestato dopo un conflitto a fuoco in cui rimase gravemente ferito, scontò due pene, venendo graziato prima in Francia dal presidente Georges Pompidou e poi da Giovanni Leone. Negli ultimi anni della sua vita si dedicò alla scrittura e alla pittura: dalla sua vita è tratto il film “O’ zingaro” interpretato da Alain Delon.
La Banda Cavallero e la rapina al Banco di Napoli
A insanguinare le strade di Milano negli anni Sessanta fu la Banda Cavallero, responsabili della rapina al Banco di Napoli avvenuta il 25 settembre 1967 in largo Zandonai a Milano che causò la morte di 4 persone. La banda si formò a Torino ed era composta da quattro persone: Donato Lopez, detto Tuccio, Adriano Rovoletto, Sante Notarnicola e Piero Cavallero, noto come il bandito compagno. Dalle periferie torinesi i quattro misero a segno molte rapine da loro definite “rivoluzionarie”: erano gli anni di piombo, dell’antagonismo sociale e la banda era fortemente politicizzata a sinistra, area anarchica.
Prima di Milano erano già avvenuti violenti scontri con la polizia, ma il 25 settembre l’assalto al Banco di Napoli si trasformò in mattanza. Rubata un’auto al musicista Pupo De Luca, la banda si diedero alla fuga inseguita dalle pantere della Polizia. Per mezz’ora le strade di Milano diventarono un far west e si contarono dodici feriti e tre vittime: Virgilio Odone, fattorino di una cartiera (ore 15,36), Giorgio Grossi, studente 17enne che aveva ancora la racchetta da tennis sotto braccio (ore 15,40), Franco De Rosa, un emigrato napoletano, colpito a bordo della sua 600 multipla (ore 15,42). Qualche giorno dopo morì anche Roaldo Piva, invalido di guerra malato di cuore che aveva aiutato gli agenti a catturare Rovoletto, cassiere della banda: il suo cuore non resse allo stress.
I Marsigliesi, le rapina di via Montenapoleone e di Piazza dei Caprettari
Dalla Francia all’Italia, Milano e soprattutto Roma: il clan dei Marsigliesi giunse nel nostro paese agli inizi degli anni Settanta, diventando una vera potenza criminale nella Capitale, anticipata però da una rapina eclatante che li mise sotto i riflettori fin dai primi passi in Italia. Il 15 aprile 1964 infatti nella centralissima via Montenapoleone a Milano, otto banditi dei Marsigliesi con a capo Jo le Maire detto il sindaco, il cui vero nome era Giuseppe Rossi, rapinano in pochi minuti la gioielleria Colombo. Arrivati in auto davanti al negozio, gli uomini della banda iniziano subito a sparare colpi di mitra per strada, scatenando il panico: il traffico si ferma, la gente corre all’impazzata, dando il tempo ai malavitosi di svaligiare la gioielleria. Il bottino finale fu di duecento milioni di lire: la loro fuga terminò otto giorni dopo.
Il colpo portò alla ribalta il nome dei Marsigliesi: negli anni Settanta i francesi si stabilirono a Roma dove si inserirono in un contesto criminale ancora frammentato in piccole bande, ma che stava crescendo attorno a figure poi tristemente note come Laudavino De Sanctis detto Lallo lo zoppo, e il futuro boss della Magliana, Danilo Abbruciati. Tre i grandi protagonisti a capo dell’organizzazioen transalpina, noti come “le tre B”: Albert Bergamelli, Maffeo “Lino” Bellicini e Jacques Berenguer.
Il loro nome divenne noto in tutto il Paese dopo la tragica rapina del 22 febbraio 2975, quando rapinarono l’ufficio postale di Piazza dei Caprettari a Roma, uccidendo l’agente Giuseppe Marchisella. Il caso scosse l’opinione pubblica: un uomo ucciso, il dolore della fidanzata che non resse alla notizie e si suicidò poco dopo, per un bottino che, ipotizzato miliardario, fu di sole 400mila lire.
Vallanzasca, la banda della Comasina
Su Renato Vallanzasca e la banda della Comasina, da lui creata e gestita per tutti gli anni Settanta a Milano, si è scritto e detto ogni cosa. Il bel Renè, soprannome del criminale più famoso d’Italia, divenne il simbolo della nuova lìgera, la mala milanese: spietato, audace, sprezzante del pericolo, nella sua carriera mise a segno rapine a negozi, supermercati, ville e appartamenti anche nelle zone più ricche di Milano. L’episodio più noto è però il sequestro di Manuela Trapani, figlia di un imprenditore milanese di soli 16 anni, ma Vallanzasca e la banda della Comasina furono protagonisti anche di scontri a fuoco come quello in piazza Vetra a Milano, dove si erano recati per un sopralluogo di una rapina.
La banda della Magliana
Una vera e propria holding criminale, nata e cresciuta a Roma, la banda della Magliana ha iniziato il suo cammino sanguinario per le strade della Capitale negli anni Settanta, scrivendo il suo nome in quasi tutti i fatti di sangue fino agli anni Novanta. Dalle rapine ai sequestri, agli omicidi e alle sparatorie per le strade capitoline, i nomi dei suoi capi, tra tutti Enrico De Pedis, Maurizio Abbatino e Nicolino Selis tornano come protagonisti di quel sottosuolo criminale e mafioso che hanno insanguinato Roma.
L’omicido Pecorelli, il caso Moro, depistaggi nella strage di Bologna, i rapporti con la P2, il coinvolgimento nell’omicidio Calvi, la scomparsa di Emanuela Orlandi, l’attentato a Giovanni Paolo II: in quasi tutti i misteri italiani c’è l’ombra della Magliana che dalle rapine a mano armata finì per essere una mafia in stile romano, con contatti estesi alle più grandi organizzazioni criminali, dalla mafia alla camorra.
La mala del Brenta, Faccia d’Angelo e la rapina alla Galleria Estense
Dal Veneto arrivano i protagonisti della Mala del Brenta, organizzazione criminale che ha dominato il Nord Italia fino all’Emilia Romagna dagli anni Settanta agli anni Novanta. Violenta organizzazione di stampo mafioso, ben radicata nel territorio veneto ma con collegamenti con i clan del Meridione tanto da essere definita in una sentenza della Corte di Appello di Venezia la “quinta mafia”, la mala del Brenta ha in Felice Maniero, detto Faccia d’Angelo, il suo capo indiscusso.
La carriera di Maniero inizia molto presto con i primi furti di bestiame, ma si evolve in forme più violente quando entra in contatto con alcuni esponenti della mafia siciliana, in soggiorno obbligato a Venezia e Padova. Pur sviluppando attività criminali in più settori, sono le rapine la specializzazione di Faccia d’Angelo, in particolare alla gioiellerie, senza dimenticare portavalori, banche, negozi e ville: nella sua carriera è stato accusato anche di sette omicidi, traffico di armi, droga e associazione mafiosa. Il caso più eclatante però avvenne in un museo, la Galleria Estense di Modena.
Il 23 gennaio 1992 quattro persone armate (Andrea Zammattio, Andrea Batacchi, Stefano Galletto, poi pentito, e Giulio Maniero, cugino di Felice) irruppero nella galleria del museo civico di Modena, immobilizzando i custodi e rubando cinque tele preziose in soli 3 minuti e 58 secondi: dal Museo sparirono il ritratto di Francesco I d’Este di Velasquez, un’opera del Correggio, due del Guardi e un trittico, su tavola, di El Greco. A guidare l’azione lo stesso Felice Maniero che, arrestato il 13 agosto dello stesso anno, iniziò a collaborare, smantellando l’organizzazione e trattando la restituzione delle opere. Il quadro di Velasquez venne recuperato dalla Criminalpol nel febbraio del 1995 a Pieve di Sacco, altre furono ritrovate nella tomba di Achille Finessi, estraneo alla banda e sepolto nel cimitero di Codigoro, in provincia di Ferrara.
La banda della Uno Bianca
Morti e rapine dal 1987 al 1994, una striscia di sangue e violenza firmata dalla banda della Uno Bianca, ex poliziotti che tennero in scacco Bologna e l’Emilia Romagna. Il nome viene dall’auto usata per le rapine e gli omicidi, la Uno Bianca: secondo la testimonianza di uno dei fondatori, Fabio Savi, divenne il loro simbolo perché era facile da rubare e difficile da individuare visto che allora ne circolavano molte. Fondatori e menti della banda i fratelli Savi appunto, Fabio e Roberto in primis, seguiti da Alberto; con loro Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli. Tutti, a esclusione di Fabio Savi, all’epoca dei crimini erano poliziotti.
La loro carriera inizia nel 1987 con le prime rapine ai caselli autostradali: l’anno successivo le azioni criminali aumentano in numero e violenza. Ogni assalto a negozi, furgoni portavalori, supermercati, distributori di benzina, uffici postali si concludono con la morte di uomini delle forze dell’ordine, testimoni, passanti, negozianti, uccisi a bruciapelo. L’episodio più tristemente noto è la strage del Pilastro, avvenuta nell’omonimo quartiere bolognese il 4 gennaio 1991: la banda si trovava lì per rubare un’auto in previsione di un colpo quando sopraggiunse una volante dei Carabinieri che li sorpassò. Per i fratelli Savi quella che era una semplice manovra divenne una condanna a morte: i carabinieri dovevano morire. Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini, tutti poco più che ventenni, furono crivellati dai colpi dei Savi e poi finiti con un colpo alla nuca.
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