Una coppia che si separa perché il marito si radicalizza e parte per il jihad in Siria, portandosi con sé il figlio di 2 anni senza dire nulla alla madre, per poi morire venti giorni dopo. La vicenda del piccolo Ismail Mesinovic, figlio di Ismar Mesinovic e di Lidia Solano Herrera, si fa sempre più complicata. Le tappe che hanno portato il bimbo a Raqqa, capitale del presunto Stato Islamico, da Longarone, nel bellunese, lontano dalla madre che, disperata, cerca di riportarlo a casa da due anni, sono tante e complesse. Ismar e Lidia, lui bosniaco di Doboj e musulmano, lei cubana e cattolica: una famiglia interreligiosa e multiculturale che viene spezzata in nome della guerra santa. A pagarne le conseguenze è Ismail, portato via da Longarone nel dicembre 2013 quando aveva solo due anni e che, da allora, è rimasto nelle grinfie dell’Isis.
La sua storia si intreccia tra l’Italia, la Bosnia e la Siria. Il procuratore antiterrorismo di Sarajevo, Dubravko Campara, sta seguendo il caso in collaborazione con le forze di polizia italiane perché da anni indaga sui foreign fighters che dal Paese partono verso i territori dell’Isis. Ismar Mesinovic è originario di Doboj, ma vive a Longarone da anni, fa l’imbianchino ed è sposato con Lidia, che viene dall’altra parte del mondo, da Cuba. La coppia ha una vita normale, la nascita di Ismail rende tutto più bello. Poi qualcosa cambia, tra giugno e luglio 2013, come spiega la stessa Lidia al procuratore Campara. Ismar si radicalizza: passa ore al pc, prega molto più di prima, cambia aspetto secondo i dettami della religione più stretta, ma soprattutto diventa violento con lei, la picchia perché non rispetta i precetti musulmani. “Io ero di religione cattolica e lui mi obbligava a uscire di casa indossando il velo islamico e voleva che mi convertissi all’islam. Non pensavo però che potesse diventare un terrorista”, ha raccontato Lidia che pure aveva concesso al marito di sposarla con rito musulmano.
Le cose peggiorano e i due si separano. A dicembre, Lidia parte per Cuba e vuole portare il figlio con sé, ma Ismar le chiede di lasciarglielo. “Obbiettò che l’avevo già fatto l’anno prima e che adesso toccava a lui portarlo con sé dai parenti”, ricorda Lidia in un’intervista al Corriere della Sera. Il padre era già andato con il figlio dai parenti in Bosnia e Germania senza alcun problema: non poteva immaginare la vera intenzione di quel viaggio.
Il 22 dicembre 2013 Ismar parte con il figlio per la Siria dove si unisce alle milizie dell’Isis. Venti giorni dopo, muore in battaglia e per il piccolo Ismail inizia una seconda, terribile odissea. Secondo le regole della sharia, un bambino deve sempre avere un padre e così il piccolo viene affidato ad alcune donne di Raqqa che indicano in Said Colic, combattente bosniaco, il nuovo padre affidatario. Anche Colic muore poco dopo. Ismail a quel punto è di nuovo solo: secondo il procuratore Campara, dovrebbe essere stato affidato a una famiglia bosniaca di Aleppo.
In questa situazione ingarbugliata, è sempre più difficile far tornare a casa Ismail. La madre ha saputo che il figlio era vivo riconoscendolo in una foto diffusa dall’Isis come strumento di propaganda: il piccolo viene tenuto per mano da un uomo, di cui non si vede il volto, e ha con sé un fucile. La donna si è rivolta direttamente anche agli uomini del presunto Califfo, usando come tramite altri foreign fighters partiti con il marito.
Uno di questi è Munifer Karamaleski, macedone che vive in provincia di Belluno: dopo la morte del marito, la donna riesce a parlarci, ma l’unica risposta che riceve è che non può fare molto per aiutarla. Da Raqqa le chiedono diversi documenti per riavere indietro il figlio: lei li invia tramite un imam di Vienna ma nulla. È la volta di Mohsen Chemingui, che vive nel bellunese e che conosce Giulia Sergio Fatima, la giovane radicalizzata di cui si è tanto parlato. Anche questo contatto si rivela inutile. Ismail è ancora nelle mani del presunto Califfato, senza la madre, in uno dei luoghi più pericolosi al mondo.