Censis scatta l’instantanea del Paese vero, il cui cittadino non conosce né gioia né felicità. I dati non lasciano speranza, l’anomalia dell’organismo statale in questione è data da una malattia che ha un nome ben preciso: “populismo”.
Il bagaglio sulla schiena pesa e impietosisce chi sopporta la fatica del vivere: oneri e doveri sociali ecco il fardello che pende come una spada di Damocle sul cittadino. Pandemia, confinamento, caro prezzi, inflazione, salari al minimo, costo della casa, inquinamento, inondazioni e caldo torrido d’estate. Dimentichiamo l’individuo felice, decantato dall’ideologia positivista in voga ai tempi di influencer, élite degli yacht e destra del fannullonismo.
La fotografia che emerge dal 56esimo rapporto del Censis mostra una Italia in forte affanno, che non spera più nel futuro e anzi vede al ribasso le sue aspettative.
“Nell’immaginario collettivo si è sedimentata la convinzione che tutto può accadere, anche l’indicibile: il lockdown, il taglio di consumi essenziali (dall’energia al carrello della spesa alimentare), la guerra di trincea o l’uso della bomba atomica. L’84,5% degli italiani è convinto che eventi geograficamente lontani possano cambiare improvvisamente e radicalmente la propria quotidianità e stravolgere i propri destini. Il 61,1% teme che possa scoppiare un conflitto mondiale, il 58,8% che si ricorra all’arma nucleare, il 57,7% che l’Italia entri in guerra.”
Il pragmatismo è diventato pessimismo. Michel Houllebecq ne “La ricerca della felicità” faceva il punto sull’ambizione umana alla gioia epicurea. Felicità che Michel non troverà mai, perché l’autore francese manipola la voglia di vivere con il nichilismo dentro, ed è un metodo alquanto sconfortante.
Succede così con Houllebecq un po’ come con noi, qui nel Bel Paese. Ma chi è a rimetterci oltre le persone? Risposta: perdiamo i valori di principio che hanno fatto l’Italia tanto bella e ricca. Ci rimette la famiglia, ci rimette il sentimento con la conseguenza plateale che dà luogo a individui abbruttiti, se non rozzi ma sofferenti, ed esseri superficiali che non sorridono: “Perché non possiamo mai essere amati”, scriveva Houellebecq nel suo libro. Anche nei corsi di yoga ci insegnano che la “felicità” passa dalla sofferenza. Ma a tutto c’è un limite.
“L’Italia post populista e malinconica” nel rapporto del Censis è frutto della fine del Novecento e della sua storia che sfocia nel narcisismo dello smartphone il secolo seguente. Con l’uccisione per mano mafiosa dei giudici Falcone e Borsellino e delle loro scorte si apre la strada al berlusconismo: soubrette e veline, leggi ad personam, diplomazia rafforzata soltanto dalle brutte figure all’estero. Ecco la romana Repubblica: prima nascono escort, corrotti, faccendieri o criminali, e poi diventano onorevoli. Voilà la scuola del merito.
Il declino dal leaderismo con la bandana è una caduta di Icaro con cui l’Italia saluta la democrazia per scottarsi nel rogo labirintico della giungla. Una discesa agli inferi che lascia lo scompiglio e apre a nuove e tortuose strade, il cui asfalto è battuto dall’irriverenza e dalla pochezza politica. Alle idee anticomuniste dell’ex premier Berlusconi, si aggiungono gli ideali separatisti e poi nazionalisti della Lega di Bossi/Salvini. Ed altro covava sotto la brace: la fiamma dei Fratelli d’Italia in cerca d’ossigeno per accrescersi.
In un contesto liquido durato un trentennio, le generazioni che attraversano il solco si sommano e danno luogo a una classe politica priva di formazione, impreparata e incolta. I populismi demagogici, poi, si insediano alleandosi con chiunque e mutano declamando promesse e allettanti propagande anti-sistema, da sinistra a destra. Insieme i populismi partecipano all’abbattimento repubblicano chiedendo autonomie e più federalismo, ma non offrono risultati. Si alimenta così un clima di insofferenza, e in maniera decisiva e non confortante si sottrae peraltro ogni contributo alla crescita dei diritti civici e alla realizzazione del sé individuale.
Ma “io è un altro” per dirla simbolicamente con Arthur Rimbaud. E chi è quell’altro? Circa nove italiani su dieci, intervistati dal Censis, sanno che l’inflazione durerà a lungo e paradossalmente sanno anche che i prezzi non torneranno come erano. Sette italiani su dieci grosso modo sono consapevoli che non vedranno alcun aumento significativo alle entrate familiari. L’80 percento degli italiani sa che il proprio tenore di vita si abbasserà.
È la recessione economica, finanziaria e, soprattutto, sociale. Il 64,4 percento di “Noi” valorosi individui della “Nazione” come direbbe la premier Meloni ideologica, si legge nel rapporto Censis: “sta intaccando i risparmi per fronteggiare l’inflazione”. Soffrono le pensioni dei nonni e soffre il patrimonio immobiliare che viene svenduto. I figli non avranno le case dei padri e i figli potenzialmente avranno pensioni irrisorie. Mentre? Mentre gli onorevoli si pappano il bonus da cinquemila euro per tablet e pc.
Continua il rapporto Censis: “Cresce perciò la ripulsa verso privilegi oggi ritenuti odiosi, con effetti sideralmente divisivi: per l’87,8% sono insopportabili le differenze eccessive tra le retribuzioni dei dipendenti e quelle dei dirigenti, per l’86,6% le buonuscite milionarie dei manager, per l’84,1% le tasse troppo esigue pagate dai giganti del web, per l’81,5% i facili guadagni degli influencer, per il 78,7% gli sprechi per le feste delle celebrities, per il 73,5% l’uso dei jet privati.”. È ora di finirla o no con il green washing? È ora di finirla o no di costruire il web 3.0 con la miseria dei salari delle Big Tech?
L’altro lato della medaglia ha inciso sopra questo silente disperarsi sociale: “Non si registrano fiammate conflittuali”. Il dissenso è ormai sparito e forse offuscato dal populismo anti-sistema, che ha fatto della barba e dell’orecchino da ribelle, o del vestirsi trasandato, una moda anticonformista per i conformisti. Le gang giovanili violente indossano abiti firmati, le mafie il colletto bianco.
Non si registrano – continua il rapporto – “intense mobilitazioni collettive attraverso scioperi, manifestazioni di piazza o cortei”, ma si evince al contrario: “una ritrazione silenziosa dei cittadini perduti della Repubblica”. La grande conquista del capitalismo è stata quella di delocalizzare l’industria all’estero in mano ai regimi che si arricchiscono con il nostro know out: ma meno operai nel Paese significa meno sindacalismo, meno associazioni, e significa lauti guadagni per gli industriali che sfruttano gli operai nei Paesi in via d’emergenza. E oggi gli impiegati (e gli operai che restano) delle grandi aziende votano a destra. Pare un altro paradosso. Perché? Perché in un’Italia di micro impresa artigianale, il livello contrattuale offerto da una multinazionale è senz’altro superiore, e così cambiano i parametri e gli orientamenti politici.
Altro sconforto rilevato dal Censis: “Al vertice delle insicurezze personali degli italiani, per il 53,0% c’è il rischio di non autosufficienza e invalidità, il 51,7% teme di rimanere vittima di reati, il 47,7% non è sicuro di poter contare su redditi sufficienti in vecchiaia, il 47,6% ha paura di perdere il lavoro e quindi di andare incontro a difficoltà economiche, il 43,3% teme di incorrere in incidenti o infortuni sul lavoro, il 42,1% di dover pagare di tasca propria prestazioni sanitarie impreviste“.
La grande disfatta si vede sempre nei numeri: alle elezioni generali quando l’Italia ha scelto i Fratelli d’Italia e gli altri suoi falsi alleati, non hanno votato 18 milioni di persone. È il primo partito del Paese che non esiste, ed è quello che, ulteriore paradosso, ottiene più voti. In valori percentuali il 39 percento degli aventi diritto di voto non si è presentato alle urne. Ma, c’è da giurarci, ha avuto l’accortezza di mettere centinaia di migliaia di like sui post dei leader politici che i social li utilizzano con notevole sapienza. È la politica dei social e dei bot, che fa influenza per ottenere potere, non il segno sulla scheda.
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