Torna l’ombra nera del razzismo negli stadi, in particolare a Roma e Verona dove i tifosi si sono resi protagonisti di atteggiamenti da censurare. Si ripetono negli anni, ormai ciclicamente, nel mondo del calcio episodi di discriminazione che hanno comportato, e comportano ancora, la sospensione degli incontri e la chiusura di settori o dell’intero stadio.
Il primo episodio è avvenuto sabato pomeriggio durante l’incontro di Serie A Roma – Napoli. Alcuni cori beceri, con protagonista il Vesuvio e i napoletani, da parte della tifoseria romanista riempiono lo stadio. L’intervento dello speaker dell’Olimpico, che aveva avvisato la tifoseria di casa delle spiacevoli conseguenze qualora il coro fosse proseguito, non aveva sortito gli effetti sperati, costringendo l’arbitro Rocchi, sul risultato di 2-0 per i giallorossi, al 68′, a sospendere il match per circa un minuto. Una sospensione, tra l’altro, che aveva portato una flessione nella manovra della squadra giallorossa che a pochi minuti dalla ripresa del gioco ha subito il goal della speranza partenopea. Oltre il danno, quindi, la beffa.
Nel pomeriggio poi, a Verona, il secondo episodio di razzismo negli stadi della giornata. Nella sfida tra i padroni di casa e il Brescia, l’attaccante Mario Balotelli viene preso di mira dalla tifoseria veronese, protagonista in passato di episodi analoghi, senza soluzione di continuità. Fischi, insulti e, purtroppo, anche gli odiosi cori razzisti ai quali Balotelli sembra resistere fin quando, al 54′, si ferma e calcia violentemente il pallone verso gli spalti minacciando di lasciare il campo, come fece un altro giocatore di colore, Zoro, in un lontano Messina-Inter del 2005. Anche in questo caso, dopo l’annuncio dello speaker, la situazione si è normalizzata ed il gioco è ripreso dopo uno stop di 4′. E come nel caso precedente, il sonno della ragione ultras ha portato anche a delle conseguenze sportive infauste per i protagonisti: dopo l’episodio infatti, Balotelli è rimasto in campo e si è preso una piccola rivincita firmando il gol del 2-1.
Le due fattispecie descritte, per quanto ugualmente sciocche e censurabili, hanno una matrice ed una base normativa differente alla quale appellarsi. Nel caso dell’insulto razzista, il tipico ululato rivolto ai giocatori di colore, il mondo dello sport, e non solo, è unanimemente concorde nella condanna. Negli anni la ricomparsa di fenomeni di intolleranza razziale e religiosa stanno sconvolgendo la nostra società e la parte civile di essa sta adottando ogni azione per contrastarne l’ascesa. Esempio degli ultimi giorni è la votazione in Parlamento della cosiddetta Commissione Segre, conseguenza degli insulti e dell’odio di cui la senatrice Liliana Segre, di origine ebraica, è stata vittima; una commissione che avrà il compito di «contrastare» i «fenomeni dell’ intolleranza, del razzismo, dell’ antisemitismo e dell’ istigazione all’odio e alla violenza», e che sarà chiamata ogni anno a trasmettere al Governo e alle Camere una relazione sull’attività svolta, segnalando casi di intolleranza, razzismo e antisemitismo. Analogamente il mondo del calcio ha adottato, in chiave italiana ed europea, una politica di tolleranza zero verso questi fenomeni con pesanti sanzioni ai responsabili e alle società coinvolte per responsabilità oggettiva.
Nel caso della discriminazione territoriale, la linea di demarcazione si fa più labile e le armi per contrastare il fenomeno rischiano di perdere di efficacia. Il codice della giustizia sportiva, in questo caso specifico, ha infatti avuto una serie di emendamenti nel tempo per cercare di individuare correttamente il fenomeno e contrastarne le forme più cruente. Se in effetti l’art. 11 del predetto codice punisca qualsiasi comportamento discriminatorio che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi origine territoriale o etnica, tale sensibilità trova al momento accoglienza solo nel nostro campionato. Sebbene infatti la UEFA, l’organismo di governo del calcio europeo, abbia più volte affrontato il problema razzismo con diverse direttive, per la discriminazione territoriale tali strumenti sanzionatori non hanno trovato spesso applicazione nei campionati esteri. È difficile imbattersi in casi di discriminazione territoriale in Gran Bretagna, Francia, Germania o Spagna e qualora questi spiacevoli episodi avvengano trovano sempre un accezione razziale o religiosa a caratterizzarne l’insulto (come nel caso dei cori antisemiti contro i tifosi del Tottenham nel Regno Unito o in Olanda con l’Ajax, le squadre rispettivamente di Londra ed Amsterdam).
Quello della discriminazione territoriale è infatti un problema che caratterizza in particolar modo il nostro paese. Il caso esplose, una prima volta, nel 2013. Dai semplici sfottò fra tifosi avversari, si passò in poche settimane alla chiusure di interi settori dello stadio in quanto in molte occasioni, in particolare i tifosi napoletani, furono oggetto di dileggio della maggior parte delle tifoserie di serie A. Alla repressione della Lega Calcio seguì la protesta di molte tifoserie che si coalizzarono per manifestare il diritto al tifo, persino quello di “tifare contro”. Varie tifoserie decisero allora, per protesta contro la norma, di cantare appositamente cori insultanti per forzare la mano del giudice sportivo e far squalificare gli stadi: in poche settimane ci si rese conto che tale regime sanzionatorio non solo non aveva fiaccato le fila dei carnefici ma aveva offerto a gruppi, anche ristretti, ma ben organizzati, una potente arma di ricatto nei confronti delle società, vittime esse stesse di tale fenomeno.
Inoltre la percezione dei comportamenti discriminatori e la labilità della linea di confine tra il mero insulto, pur becero e volgare, ed il comportamento discriminatorio ha creato un’estrema incertezza del diritto provocando intollerabili disparità di trattamento, essendo ogni decisione rimessa alla ampia e pressoché totale discrezionalità degli organi della giustizia sportiva. Se è vero che la discriminazione territoriale è un comodo eufemismo con il quale si cela il bieco razzismo, perché limitarne i confini solo ad alcuni soggetti? Quello che in molti hanno notato negli anni è che sebbene il coro “noi non siamo napoletani” e “Vesuvio lavali col fuoco” abbia portato immediatamente ad un intervento dell’organo ispettivo sportivo, tale solerzia non si è notata nel caso in cui si intoni un coro analogo ma riferito ad altri tifosi o città italiani. A tale ipocrisia, si ribellarono, per onor di cronaca, gli stessi tifosi napoletani mostrando, in solidarietà con le altre tifoserie, un polemico striscione “Napoli colera, e adesso chiudeteci la curva”. Anche perché una differenziazione nel contrasto al fenomeno può creare pericolosi contraccolpi nella credibilità del sistema.
Quella della FIGC, la Federazione Italiana Giuoco Calcio, sembrò in effetti una facile soluzione per un problema complicato, o forse peggio il tentativo di pulirsi la coscienza di fronte all’ondata di polemiche scaturite. Negli anni neanche i vertici della FIGC, inoltre, sono riusciti a rimanere fuori dalla vicenda macchiandosi di frasi razziste, omofobe e sessiste come nel caso dell’ormai ex presidente Tavecchio che si lasciò sfuggire una frase decisamente infelice su un calciatore di colore che “prima mangiava le banane e ora gioca nella Lazio”, a testimonianza che il razzismo negli stadi va anche oltre di essi. L’idea della repressione del fenomeno discriminatorio non ha portato quindi a quell’evoluzione culturale necessaria sia al mondo del pallone che alla nostra società. In particolare è curioso come lo stesso legislatore attento alle pratiche discriminatorie altrui gestisca da anni l’ordine pubblico durante le manifestazioni sportive vietando la circolazione sul territorio nazionale e l’ingresso in luoghi pubblici come gli stadi in base alla residenza. Per accedere allo stadio Olimpico di Roma infatti un tifoso napoletano non avrebbe dovuto temere tanto il “nemico” giallorosso, quanto il disegno arzigogolato del piano della sicurezza. Un tifoso napoletano (o persino un tifoso romanista), residente a Napoli, sarebbe infatti impossibilitato all’acquisto a causa del divieto di vendita di titoli di accesso nei confronti dei residenti della provincia della squadra ospite.
Il divieto di viaggiare per l’Italia a sostegno della propria squadra del cuore a causa della propria residenza può quindi prefigurarsi come una forma di discriminazione territoriale, sebbene per abbattere il razzismo, viaggiare è forse la migliore soluzione; viaggiare, infatti, arricchisce culturalmente, contribuisce ad abbattere i pregiudizi, sad apprezzare la scoperta dei nuovi luoghi, diversi stili di vita e modi di pensare. Pretendere che la nostra società, come i nostri stadi, siano magicamente liberi dagli insulti tramite qualche trucco repressivo è un’utopia alla quale ci abbandoniamo, consci che è ben più arduo ideare un reale percorso educativo. Ma è questa forse la vera arma a nostra disposizione: la cultura, perché il razzismo ci cura leggendo e imparando cose nuove. Ampliando le menti dei nostri concittadini, anche negli stadi, si sconfiggerà il problema: la cultura e l’educazione civica sono le risposte, perché il razzismo è il frutto dell’ignoranza.
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