Negli ultimi anni le forze armate statunitensi hanno inviato centinaia di migliaia di soldati all’estero per far fronte alla minaccia terroristica. Si tratta per lo più di ragazzi giovani che vengono reclutati a seguito di un’imponente campagna d’arruolamento che sul piano etico potrebbe essere ampiamente criticata. Un film di guerra al cinema è preceduto da uno spot pubblicitario hollywoodiano, pagato dal governo degli Stati Uniti, che invita a prendere la strada della carriera militare tra assoli di chitarra elettrica e panoramiche del deserto. Reclutatori in uniforme approcciano ragazzini freschi di maturità agli “open day” che i licei promuovono per avvicinare gli studenti alle università. Sergenti del corpo dei Marines stabiliscono i loro gazebo di reclutamento nei pressi dei campi di “paint ball”, il popolare gioco di guerra che viene praticato in tutta l’America. A colpire di più di questa pubblicità è la mezza promessa di una carriera lavorativa, facilitata dalle abilità acquisite nelle forze armate, una volta fuori dall’esercito. Basta avere diciott’anni, firmare il contratto e via verso nuove avventure, armati di tutto punto.
Al loro ritorno dalle zone di guerra, questi ragazzi devono fare i conti con una nazione che non ha idea di cosa abbiano passato. Soli e confusi, molti sono afflitti da post traumatic stress disorter (PTSD) e non riescono a trovare un posto all’interno della società.
All’ombra dei grattacieli dell’alta finanza di New York, si possono trovare veterani senzatetto dai tempi del Vietnam. La nuova ondata di sbandati, provenienti per lo più dal servizio in Iraq e in Afghanistan, è composta da persone che passano le loro giornate a fare i conti con i fantasmi della guerra. Gusci vuoti con occhi vacui, persi nel nulla, dietro ad un cartone con la scritta in pennarello: “Veteran. Please help. God bless you”. Sono tantissimi. Molti hanno uno o più arti amputati, anche se la mutilazione peggiore è quella che non si può vedere. Ho più volte provato ad avvicinare questi relitti umani con l’intento di intervistarli, ma la difficoltà che queste persone hanno nel ricordare il motivo per cui sono seduti su un marciapiede mi ha sempre fatto desistere dal proseguire.
Steven (nome di fantasia) si ritiene fortunato. Quattro anni nei marines e non è mai stato inviato in zone di guerra. Ha servito in Libia durante i disordini del 2011 ma non ha mai dovuto sparare un colpo. Ricorda la sua permanenza nei Marines con affetto, riferendosi ai suoi compagni d’arme come a dei fratelli. Mi racconta che durante questi quattro anni ha imparato ad utilizzare equipaggiamenti bellici di altissimo livello, ma con poca utilità nella vita di tutti i giorni. Ora lavora nelle costruzioni edili, come molti e combattenti, e non deve fare i conti con ricordi traumatici. Steven, durante le sue lunghe permanenze alle basi dei Marines della Carolina del Nord, ha conosciuto molti veterani dell’Afghanistan. Rievoca una storia, che mi racconta con semplicità, senza guardarmi. Durante un giorno di noia in una delle basi sul suolo statunitense, lontano dai pericoli, c’è stata un’emergenza. Un soldato appena tornato da Kabul ha impugnato una pistola e ha iniziato a camminare su e giù per un crocevia, minacciando di uccidere se stesso e i passanti. A nulla sono serviti gli inviti a calmarsi da parte dei suoi commilitoni: in presa ad una pressoché totale confusione mentale, il ragazzo si è messo la pistola in bocca ed ha premuto il grilletto.
Il governo degli Stati Uniti intraprende campagne di sensibilizzazione verso l’argomento dei veterani da anni, con risultati altalenanti. L’11 novembre ho preso parte tra il pubblico alla parata del Veteran’s Day (giornata di festa nazionale in onore dei veterani di tutte le guerre) che risale lenta la fifth avenue di New York. Durante i giorni che precedono il Veteran’s Day, il governo invita attraverso gli organi di informazione ad approcciare un veterano ed iniziare una conversazione seguendo delle precise linee guida. Il veterano va ringraziato per il suo servizio, gli deve esser domandato dove è stato schierato e con quale unità e infine la domanda più importante, con cui ci si può congedare: what’s next? Cosa farai ora? Per molti di loro, è proprio una “buona domanda”.
L’organo ufficiale che si occupa dei veterani, U.S. Department of Veteran’s Affairs, ha stilato un resoconto del tasso di suicidi tra i soldati tornati a casa dalle zone di guerra tra il 1999 e il 2012. Sono 22 al giorno gli ex combattenti che si sono tolti la vita in questi anni. Quasi uno ogni ora. Analizzando il documento diffuso dal Dipartimento, salta subito all’occhio che alcuni degli stati con il più alto numero di coscritti non ha voluto fornire dati al riguardo (Texas, Ohio, Virginia e Colorado). È dunque verosimile che il numero di suicidi giornalieri sia più alto della cifra resa nota. Il Cleveland Clinic Journal of Medicine, in una pubblicazione del 2012, sostiene che i veterani si tolgano la vita perché la maggior parte di loro non cerca aiuto professionale.
Domenica 2 novembre la famosa maratona di New York è passata sotto casa mia. Un fiume colorato di persone si è dispiegato sotto le mie finestre per ore. Quando tutto era finito e il sole ha iniziato a tramontare, sono sceso in strada per andare ad incontrare alcuni amici. Da lontano, ho visto avvicinarsi un gruppetto di corridori, gli ultimi tra gli ultimi. Erano i veterani dell’ospedale militare Walter Reed, specializzato in mutilazioni di guerra. Tra loro, il sergente maggiore Cedric King, che ho avuto l’occasione di vedere di persona, ha completato la maratona con due gambe prostetiche, rompendole entrambe ma continuando verso il traguardo zoppicando per ore. Molti passanti incitavano il sergente King, alcuni correndo verso di lui per stringergli la mano. La forza di volontà di Cedric King mi ha commosso.
Più tardi, quella sera, ho visto l’ennesimo disperato sul ciglio della strada di fianco ad un cartello in cui spiccava la parola “Afghanistan”. Nei suoi occhi, la battaglia si è spenta da tempo.
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