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Il 17 aprile gli italiani dovranno esprimere il loro parere in merito alle trivellazioni con un referendum. La domanda che viene fatta ai cittadini è semplice: volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività entro le 12 miglia dalla costa nelle acque territoriali italiane? Votare sì si traduce con un “basta trivelle” e viceversa il no vuole che l’attività estrattiva proceda. È giusto specificare che il referendum riguarda le concessioni già attive non quelle future. Il Governo Renzi con la Legge di Stabilità 2016 ha vietato le nuove attività entro le 12 miglia, ma allo stesso tempo, con un emendamento, ha acconsentito che le società petrolifere, con titoli abilitativi già attivi, potessero ricercare ed estrarre idrocarburi, siano questi greggio o gas, a tempo praticamente indeterminato, con la formula “fino a vita utile del giacimento”. Proprio su questo punto bisognerà pronunciarsi. Quali sono i punti focali e quali quelli che creano i maggiori dubbi e scontri tra le diverse fazioni? Ma soprattutto: quali sono i dati a nostra disposizione?
È così importante il petrolio nel nostro paese per l’indipendenza energetica?
Il referendum non riguarda solo il petrolio ma anche il gas. I dati ufficiali sulla situazione italiana in materia vengono pubblicati nel Bilancio della situazione energetica nazionale, sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico. Il rapporto sul 2014, pubblicato nell’agosto dello scorso anno, parla di un settore in crisi: “Il 2014 è stato un anno particolare per i mercati energetici internazionali: nella seconda parte dell’anno il prezzo del petrolio ha perso metà del suo valore (per l’effetto combinato di un’offerta rafforzata dalla produzione USA e di una domanda debole da parte dell’Asia); i prezzi del gas si sono ridotti sui diversi mercati (per la debole domanda in Europa, l’eccesso di offerta in USA e le dinamiche del greggio in Asia); è continuata la crescita dell’incidenza nel mix energetico internazionale delle fonti rinnovabili, il cui contributo alla produzione di energia elettrica (poco meno di un quarto) ha raggiunto quello del gas naturale”. I Governi investono comunque ancora molto nelle fonti fossili, come possiamo vedere dai dati della Oil Change International pubblicati a dicembre 2015: 8 paesi ricchi (tra cui l’Italia) spendono ben 80 miliardi di dollari l’anno nell’industria petrolifera, del gas e del carbone, e solo 2 ad esempio nel fondo verde per il clima (Gcf), un fondo d’investimento per progetti a favore di Paesi in via di sviluppo (Pvs) che vogliano ridurre le emissioni di gas serra e accrescere le capacità di adattamento ai cambiamenti climatici. Questo è stato uno dei nodi fondamentali usciti dalla Cop21: per diminuire il riscaldamento globale è fondamentale l’aiuto reale ai paesi in via di sviluppo che potrebbero puntare tutto su fonti fossili per mancanza di ricerca e sviluppo nelle alternative. Il loro sostegno per politiche green aiuterebbe a rimanere dentro i famosi “2 gradi entro il 2020” che consentirebbero di evitare il collasso: “Secondo le ultime stime più probabili si coprirebbe il fabbisogno energetico di qualche settimana all’anno se si trova tanto petrolio, quindi forse è meglio investire in fonti rinnovabili che durano per l’eternità – afferma Andrea Poggio, Vicepresidente Legambiente – Un anno di incentivi al fotovoltaico, dove inizialmente si gridò allo scandalo perché faceva aumentare del 10% le bollette, ha fatto aumentare esattamente la quantità corrispondente dell’energia che ha prodotto, quindi è un buon investimento”.
A che punto sono le energie rinnovabili nel nostro Paese?
Guardando sempre i dati del Ministero dello Sviluppo economico, vediamo come circa il 33% del bilancio energetico nazionale sia in realtà coperto dall’energia verde: “Per poter aumentare questa percentuale sono necessari investimenti significativi, se non si cambia paradigma e si rimane ancorati all’energia fossile questo non avverrà – commenta Domenico Finiguerra, ecologista – Non abbiamo neanche una pianificazione adeguata. Abbiamo investimenti a pioggia spesso anche in posti dove non andrebbero realizzati, creando malcontento nei territori ma questo perché manca una politica strategica a livello nazionale che porti il nostro paese all’indipendenza energetica usando le risorse green, nel rispetto dell’articolo 9 della Costituzione che tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico del nostro Paese. Non penso che trivellare a ridosso delle coste sia valorizzare il nostro vero patrimonio dove si dovrebbero mobilitare i posti di lavoro. Il Governo dovrebbe farsi carico dei posti di lavoro persi investendo nel turismo e nella piccola/media impresa”.
Quanto costa il petrolio e quanto guadagniamo dalla sua estrazione?
Citando il Bilancio Energetico nazionale di cui sopra, ecco il costo del petrolio al barile: “La media del prezzo del Brent nel 2014 è di 99 $/b, in calo di 10 $/b rispetto all’anno precedente. Il fabbisogno energetico lordo del Paese nel 2014 è stato di 166,43 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (Mtep), con un decremento del 3,8 % rispetto al 2013, a fronte di una riduzione del PIL in termini reali dello 0,4. La diminuzione della domanda di energia primaria conferma il trend di riduzione registratosi negli ultimi anni, rappresentando il valore, in termini assoluti, più basso da 18 anni“. Chi produce petrolio in Italia deve versare allo Stato una royalty del 10% sul valore del gas e del greggio prodotti a terra (come stabilito dalla Legge 99/2009), mentre le royalties dovute per le produzioni su terra di gas e petrolio fino al 7%.
(clicca qui per ingrandire la tabella)
Come possiamo vedere anche da questa tabella di uno studio del 2012 sulla tassazione degli idrocarburi nel nostro paese e pubblicato anche sul sito del Ministero dello sviluppo economico, notiamo come le prime 20.000 tonnellate di petrolio estratto a terra e le prime 50.000 a mare siano esenti da tassazione. Nello stesso studio poi possiamo notare la differenza di tassazione tra l’Italia e gli altri Paesi Ocse. Se rimaniamo in Europa, la Norvegia ad esempio, ha una tassazione nettamente superiore rispetto alla nostra.
Sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico sono pubblicati i versamenti delle royalties negli anni: nel 2015 si tratta di 352 milioni di euro, una cifra che si avvicina ai 300 milioni di euro che si spenderanno a causa della decisione di non accorpare le elezioni amministrative con il referendum, il famoso election day, chiesto a gran voce dalle associazioni ambientaliste e da parte dell’opposizione in Parlamento. Analizzando più nel dettaglio l’incasso del 2015 si vede che dei 352 milioni di euro, più di 55 mila sono andati allo Stato, quasi 76 mila al Fondo sviluppo economico e social card e 31.339 all’aliquota ambiente e sicurezza, 163 mila alle Regioni (dove svetta la Basilicata, seguita da Emilia Romagna e Calabria), più di 26 mila ai Comuni, tra i quali primeggia Viggiano. Proprio il comune in provincia di Potenza da dicembre dello scorso anno è il soggetto di un’inchiesta condotta dai pm Francesco Basentini e Laura Triassi, sul Centro Olio Eni. Le accuse sarebbero di traffico illecito di rifiuti e disastro ambientale. Tra gli indagati ci sono ex direttori Arpa, dirigenti di diversi enti, ma anche della regione Basilicata e della provincia di Potenza. Proprio in questi giorni, due filoni d’inchiesta hanno mostrato alcune intercettazioni che hanno spinto alle dimissioni del ministro Guidi. La parte dell’indagine legata al reato di disastro ambientale riguarda presunti illeciti nella gestione dei reflui petroliferi al Centro Olio in Val d’Agri a Viggiano. Secondo le indagini i rifiuti pericolosi sarebbero stati catalogati come non pericolosi in maniera arbitraria, e di conseguenza le scorie non sarebbero state smaltite in modo adeguato.
Si perderanno posti di lavoro?
Altro nodo fondamentale, che anima il dibattito nel periodo che precede il voto, è quello occupazionale: “Il referendum riguarda la durata delle concessioni in essere – commenta Enzo Di Salvatore del Coordinamento Nazionale No Triv – non riguarda le attività petrolifere o di estrazione del gas in essere, riguarda la durata di queste concessioni. Qualora dovesse vincere il Sì il 17 aprile, il 18 aprile non si perderebbe nemmeno un posto di lavoro, il problema si porrà al massimo man mano che le concessioni andassero a scadenza, quindi progressivamente, fra 5, 10 magari anche 20 anni, a seconda della scadenza naturale delle concessioni. Per rimanere coerenti con quanto fatto dal Governo, le concessioni devono avere una scadenza se vogliamo liberare progressivamente i nostri mari da questo tipo d’attività. L’invito è appunto intervenire subito, non tra 5, 10 anni perché si possa porre rimedio anche a quei posti di lavoro impiegando i lavoratori in altri tipi d’attività”. Il comitato contrario al referendum, parla di stime sul bacino di una delle aree più interessate dal quesito: “Se non proseguiranno le attività che oggi sono operative sulle piattaforme italiane considerate in questo quesito referendario, ovvero quelle entro le 12 miglia, che sono oltretutto operai specializzati e tecnici, si parla di circa 4-5mila posti di lavoro nel bacino dell’area dell’Emilia Romagna, che non si perdono chiaramente dall’oggi al domani, ma si va a depauperare un settore” commenta Alessandro Beulcke, di Ottimisti e Razionali.
Rischi ambientali
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Poche settimane fa Greenpeace ha pubblicato un rapporto che evidenziava l’inquinamento delle zone limitrofe alle trivellazioni in mare: “Le trivelle già inquinano e lo fanno da diversi anni – commenta Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento Greenpeace – Nel rapporto Trivelle Fuori Legge pubblichiamo dati ministeriali relativi all’impatto delle attività estrattive in Adriatico. Lo scenario che ne emerge è quello di una contaminazione grave e diffusa. Circa i 3/4 dei sedimenti marini nelle aree circostanti le piattaforme offshore localizzate in Adriatico superano i limiti di legge laddove questi esistano”. Nel rapporto si legge che: “circa l’86% del totale dei campioni analizzati nel corso del triennio 2012-2014 superava il limite di concentrazione di mercurio identificato dagli Standard di Qualità Ambientali (SQA)” e aggiunge: “I risultati mostrano che circa l’82% dei campioni di mitili raccolti nei pressi delle piattaforme presenta valori più alti di cadmio rispetto a quelli misurati nei campioni presenti in letteratura; altrettanto accade per il selenio (77% circa) e lo zinco (63% circa)”.
Sullo sfruttamento della risorsa e i rischi ad esso collegato si sono pronunciate nel tempo diverse associazioni:“Tra i problemi ambientali, storicamente, l’estrazione di idrocarburi è sempre stata ritenuta responsabile in parte del fenomeno della subsidenza, cioè dell’abbassamento del suolo – commenta Luca Carra, consigliere nazionale Italia Nostra – in molte regioni italiane, quelle più interessate dallo sfruttamento degli idrocarburi, unito poi alla contaminazione ambientale, al rischio di microsismi”.
Trasporto marittimo della risorsa e rischi
Quando si parla di idrocarburi ma soprattutto di petrolio, si può fare anche un discorso generico sulle criticità legate non solo alla sua produzione ma anche al suo trasporto, visto che importiamo praticamente la quasi totalità del greggio e del gas che consumiamo. L’Italia già si basa su un’importazione quasi totale del greggio, come si poteva notare nella tabella energetica del Misef: “Tutti hanno fisso nella memoria le immagini delle petroliere che sono andate in avaria e hanno disperso il loro petrolio in mare, vale quindi la pena rischiare di distruggere il nostro vero petrolio che è il Mar Mediterraneo e le nostre spiagge, il nostro turismo, per anni?” dichiara Andrea Poggio, vicepresidente di Legambiente.
Dei rischi ambientali ne parlò anche l’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), in un rapporto pubblicato nel 2011 intitolato “Sversamenti di prodotti petroliferi: sicurezza e controllo del trasporto marittimo”: “L’approvvigionamento del greggio avviene esclusivamente via mare. La naturale configurazione geografica del nostro paese offre numerosi scali portuali dove le navi cisterna, provenienti dalla Russia o dai paesi del Medio Oriente, possono attraccare e scaricare il loro carico. Tale forma di trasporto comporta inevitabilmente delle criticità, infatti, non sono trascurabili i rischi di sversamento di greggio in mare a seguito di incidenti durante la navigazione o durante le operazioni di carico/scarico del greggio. Nel 1991, durante le operazioni di bilanciamento del carico, la petroliera cipriota Haven esplose nel golfo di Genova, sversando in mare parte del suo carico, circa 144.000 tonnellate di petrolio, creando il più grave disastro ambientale del genere mai verificatosi nel Mediterraneo”. Non dimentichiamoci poi dell’olio combustibile che traina le gigantesche navi container, i cui incidenti possono causare dei danni ambientali notevoli (come successe nel 2011 in Nuova Zelanda e nel 2007 nella Manica)“.
Andando sul sito dell’Itopf si può accedere alla loro immensa banca dati sugli incidenti legati allo sversamento di petrolio dagli anni 70 ad oggi: avere visivamente una mappa di tutti dà l’idea del fenomeno. Anche se i dati dagli anni 70 ad oggi registrano dei cali nel numero fattivo di incidenti e sversamenti, non dobbiamo dimenticarci che solo nel 2015, come si legge sul sito, ci sono state dispersioni di greggio a livello globale per 7,000 tonnellate, la maggior parte di queste registrate nel mese di Gennaio e Giugno. Perché, come si evince dai casi riportati, non è necessario che ci siano centinai d’incidenti, ne bastano due di una certa portata per avere effetti devastanti d’inquinamento, anche per la difficoltà d’arginare le perdite continue. Tornando al rapporto dell’Ispra leggiamo ad esempio: “Ben più gravi, purtroppo, sono stati gli incidenti che hanno coinvolto le piattaforme di estrazione del greggio. Nel 1979 l’esplosione della piattaforma Ixtoc I nella Baia di Campeche nel Golfo del Messico portò una colossale fuoriuscita di petrolio, almeno 454.000-480.000 tonnellate, durata ben 9 mesi. Più recentemente, il disastro della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon ha innescato la fuoriuscita di ingenti quantità di petrolio, stimate fra 500.000 e 627.000 tonnellate, sempre nella zona del Golfo del Messico”.
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