Il referendum abrogativo sul Jobs act, lanciato dalla Cgil a luglio e ormai molto probabile, rischia di essere la nuova bomba a orologeria pronta a esplodere addosso a Matteo Renzi. Per disinnescarla, ragionano nel Pd, ci sono due modi: andare alle elezioni in primavera per rinviare il referendum di un anno, o apportare alla riforma del lavoro delle modifiche. Soluzioni che hanno creato nuove discussioni all’interno del partito ma anche con opposizioni e sindacati. Su tutti incombe però la data dell’11 gennaio, giorno in cui la Corte Costituzionale dovrebbe dare il via libera al referendum abrogativo. Referendum di cui finora si è parlato poco. Andiamo con ordine.
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Tutto è cominciato a luglio, quando la Cgil ha depositato in Cassazione 3,3 milioni di firme a sostegno della proposta di tre referendum popolari abrogativi in materia di lavoro. Due dei tre quesiti riguardano la riforma Poletti: il ripristino dell’articolo 18 e la cancellazione dei voucher. Causa, attacca il sindacato, del proliferare del precariato. Il terzo quesito intende riesumare la responsabilità in solido di appaltatore e appaltante. Accanto ai quesiti anche un’iniziativa di legge popolare per un nuovo Statuto dei lavoratori. La proposta di referendum, secondo l’iter, è stata vagliata per prima dalla Corte di Cassazione: il via libera è arrivato il 9 dicembre. La palla è passata quindi alla Consulta che l’11 gennaio si pronuncerà sulla sua ammissibilità. In caso di ok (che appare scontato), al presidente della Repubblica Sergio Mattarella non resterà che indire il referendum. Quando? Tra aprile e giugno 2017.
Perché il referendum sul Jobs act può accelerare le elezioni?
L’eventuale consultazione popolare sul Jobs act potrebbe portare al voto in primavera proprio per evitarlo. Voto in primavera che, sia chiaro, non è da escludere a prescindere. L’ex premier Renzi teme il referendum perché in caso di vittoria del Sì (è abrogativo, quindi le fazioni Sì-No si invertirebbero) e di abrogazione di parte della riforma Poletti, per lui sarebbe un’altra brutale sconfitta. La seconda dopo il No alla riforma costituzionale. Il retroscena raccontato di un Renzi che spingerebbe per le elezioni in primavera per disinnescare quella che vede come una bomba a orologeria. Secondo la legge 352 del 1970, infatti, in caso di scioglimento delle Camere la consultazione referendaria verrebbe sospesa e rinviata a un anno dopo le elezioni.
Giuliano Poletti è sulla stessa lunghezza d’onda di Renzi. Il ministro del Lavoro è stato esplicito: “Mi sembra che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto, quindi prima del referendum sul Jobs Act”. Dichiarazione che non è piaciuta alla leader della Cgil Susanna Camusso: “Significa non avere il coraggio di affrontare i problemi”. E che ha spaccato, tanto per cambiare, il Pd.
Il Pd che chiede la revisione del Jobs Act
Secondo diversi esponenti del Partito Democratico è inevitabile invece la revisione del Jobs Act. Roberto Speranza, della minoranza, attacca: “Le parole del ministro Poletti sono sbagliate: perché sembrano dire che il referendum è un problema e che perciò è meglio evitarlo. Il governo non deve dare l’impressione di cercare scorciatoie. Poi sul merito il dibattito è aperto: lui difenderà la sua legge, è legittimo, ma è altrettanto importante rispondere alla richiesta di partecipazione dei cittadini. Nei referendum della Cgil è sicuramente rappresentata una parte fondamentale della nostra sensibilità di sinistra. Sul Jobs Act penso ad esempio alla questione dei voucher: è un tema che non lascerei alla propaganda di Salvini. Più che invocare le urne per evitare che si svolga il referendum si intervenga subito sul Jobs act, a partire dai voucher”. “Gentiloni dia un segnale e cambi subito la legge” incalza Guglielmo Epifani, ex segretario della Cgil (e per poco) del Pd. “Altro che congelare i referendum sindacali. Il Pd affronti le questioni e il nuovo governo cambi il Jobs Act”.
L’impatto economico del referendum sul Jobs Act
Ma quali sarebbero le conseguenze economiche e lavorative dell’eventuale referendum? Renzi, al di là dell’impatto politico, sarebbe preoccupato anche per le conseguenze sull’occupazione. “Reintrodurre l’articolo 18 sarebbe come dire ‘ragazzi abbiamo scherzato’. Il giorno dopo arriverebbe un downgrading per l’Italia dalle agenzie di rating”, sarebbe stato il suo sfogo, come raccontano i retroscena del quotidiano La Stampa. Il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ha lanciato l’allarme: secondo lui l’incertezza causerebbe un brusco stop alle assunzioni. “Se non prendiamo posizioni su alcune cose l’ansietà del sistema Paese di giorno in giorno aumenta. I consumatori non consumano, gli investitori attendono e questo è un problema. Abbiamo fatto il Jobs act, adesso c’è il referendum – attacca Boccia – Se arriva il referendum cosa accade? Io imprenditore attendo e non assumo. Questi sono i capolavori italiani dell’ansietà e dell’incertezza totale e i motivi per i quali gli imprenditori italiani sono i più bravi al mondo perché vivono in condizione di perenne incertezza”.
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