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Referendum sulle trivelle il 17 aprile: niente election day

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha firmato il decreto che indice il referendum popolare anti-trivelle per il 17 aprile: dopo il sì della Consulta, uno dei quesiti del referendum sulle trivelle voluto fortemente da associazioni di cittadini ed enti locali giungerà fino alle urne. Non ci sarà dunque l’election day con le amministrative come richiesto con forza dai comitati e dai promotori del referendum: il Colle si è rifatto al decreto 98 del 2011, che non prevede la possibilità di abbinare elezioni con referendum, tanto che per l’unico precedente in questo senso, avvenuto nel 2009, è servita una legge specifica. Il quesito a cui sono chiamati a rispondere i cittadini riguarda la durata delle autorizzazioni a esplorazioni e trivellazioni dei giacimenti già rilasciate, un referendum che aveva già ottenuto il via libera dalla Corte di Cassazione e che era stato proposto da nove Consigli regionali, ovvero Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. Proviamo a ricostruire tutti i passi salienti di questa vicenda che vede scontrarsi frontalmente il governo Renzi contro ambientalisti e tanti cittadini comuni, preoccupati che le trivellazioni alla ricerca di petrolio ed idrocarburi al largo dei nostri mari possano avere un impatto distruttivo sulle biodiversità presenti a causa della tecnica dell’airgun usata nelle ricerche petrolifere, considerata dagli scienziati particolarmente nociva agli organismi acquatici, senza contare il rischio speculazioni che potrebbe generare conseguenze irreversibili come inquinamento e scomparsa di bellezze naturali uniche al mondo.

Come spesso succede, due fazioni contrapposte si sono sfidate in questi mesi: da un lato l’esecutivo guidato da Matteo Renzi, appoggiato da esperti e studiosi vari, che ritiene assolutamente sicura l’estrazione del petrolio lungo le coste della penisola, garantendo ricchezza ed occupazione soprattutto al Sud, dall’altra i cittadini preoccupati al fianco degli amministratori locali, che sotto la comune bandiera ‘No triv’ hanno messo in capo qualsiasi azione pur di fermare il piano governativo. Lo Sblocca Italia prevede di rendere più agevoli i percorsi per ottenere le autorizzazioni alle trivellazioni, e in particolare sono Basilicata e Sicilia le regioni maggiormente interessate al provvedimento, anche in tratti di costa che rientrano nel patrimonio naturale dell’Unesco.

Il caso Ombrina Mare

Il principale punto del contendere diventa invero il progetto Ombrina Mare in Abruzzo, risalente al 2013, che riceve il parere positivo della Commissione di valutazione impatto il 6 marzo 2015: il piano di sfruttamento prevede una nave-raffineria al largo della costa abruzzese che in piena libertà avrebbe potuto trivellare alla ricerca di idrocarburi, oltretutto in un’area che è in attesa di una legge di tutela ambientale sul Parco marino, legge che ancora oggi è bloccata tra i palazzi del Potere a Roma. Anche in Parlamento arriva la battaglia parlamentare per salvare Ombrina Mare dalle trivellazioni, con il Movimento 5 Stelle che si schiera a favore della popolazione e il Pd che assume invece un atteggiamento oscillatorio: il governo cerca di evitare lo scontro con gli enti locali correndo ai ripari attraverso la Legge di Stabilità, nonostante il premier Renzi cerchi di convincere l’opinione pubblica affermando che ‘è impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia e in Basilicata‘. Ma da Nord a Sud, il popolo chiede lo stop alle trivellazioni.

La legge di Stabilità

Nel crescendo delle tensioni tra governo ed enti locali, arriva così la parziale marcia indietro dell’esecutivo mediante alcuni emendamenti alla Legge di Stabilità, in particolare con la norma che ripristina il divieto di trivellazione entro le 12 miglia dalla costa, di fatto cancellando il progetto Ombrina Mare. Vengono anche meno una serie di limitazioni nei processi decisionali per i territori regionali stabiliti in un comma del testo unico dell’Ambiente e all’articolo 38 dello Sblocca Italia, e che aveva portato i comitati a proporre sei quesiti referendari. Quesiti che hanno spaventato non poco il governo, consapevole che una bocciatura alle urne del piano energetico è assai probabile.

La battaglia referendaria

I quesiti referendari proposti in prima istanza dai promotori erano appunto sei, ottenendo parere positivo dall’Ufficio centrale presso la Corte di Cassazione: dopo il parziale dietrofront del governo attraverso la Legge di Stabilità, la Cassazione ha dovuto nuovamente valutare i referendum, e a questa volta ne ha ritenuto ammissibile solo uno, quello che riguarda i permessi e le concessioni già rilasciate, affinché abbiano la ‘durata della vita utile del giacimento‘. Il 19 gennaio 2016 arriva anche il parere della Corte Costituzionale, che conferma il giudizio della Cassazione, secondo cui ‘il quesito ammesso è l’unico del quale l’ufficio centrale per il referendum ha affermato la legittimità sulla base della normativa sopravvenuta. Nella nuova formulazione il referendum viene pertanto ad incentrarsi sulla previsione che le concessioni petrolifere già rilasciate durino fino all’esaurimento dei giacimenti, in tal modo prorogando di fatto, come rilevato dall’ufficio centrale per il referendum, i termini già previsti dalle concessioni stesse. La sentenza sarà depositata entro il 10 febbraio, come previsto dalla legge‘. Soddisfatti associazioni e governatori regionali, che considerano l’atteggiamento del governo prima, e il responso della Consulta poi, una vittoria popolare: l’ultima parola spetta ora ai cittadini, che si dovranno pronunciare sull’unico punto rimasto ancora controverso, prima di poter dichiarare vittoria completa contro la lobby dei petrolieri.

Giulio Ragni

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