Torture lunghe e dolorose, fino alla morte, portate avanti dai servizi di sicurezza egiziani prima e da quelli militari dopo, per ordine del ministro degli Interni e del presidente Al-Sisi. È quanto rivela un testimone anonimo che ha raccontato cosa avrebbe visto in quei terribili giorni in una mail inviata a Repubblica. La lettera è in mano anche agli investigatori italiani e al pm Sergio Colaiocco, oltre che alla legale della famiglia, l’avvocata Alessandra Ballerini: sebbene non sia firmata, scritta in un misto di inglese, arabo e qualche parola di italiano, potrebbe rappresentare una svolta. L’anonimo fa nomi e cognomi dei responsabili della morte del giovane ricercatore, personaggi che arrivano fino ai massimi vertici del governo egiziano. A renderla davvero importante sono tre dettagli delle torture che, finora, erano noti solo agli investigatori italiani perché riscontrati nell’autopsia.
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La lettera è un pugno allo stomaco. Le autorità devono ancora verificare tutto e scoprire chi ci sia dietro quella casella mail che ha deciso di scrivere e raccontare quanto visto, pur sapendo di rischiare la vita.
La cosa più importante è che il testimone parla di particolari che fanno davvero pensare che fosse presente mentre Giulio veniva torturato e che conosce tutti i responsabili della sua morte, gli aguzzini e chi ha dato gli ordini.
I colpevoli
Nella mail, l’anonimo indica nel generale Khaled Shalaby, capo della Polizia criminale e del Dipartimento investigativo di Giza, il responsabile del suo rapimento. Shalaby è colui che ha avvalorato per primo le tesi dell’incidente stradale e dell’omicidio a sfondo omosessuale, ma è soprattutto l’ufficiale già condannato per torture, come hanno sottolineato per primi gli attivisti egiziani. C’è lui dietro il sequestro: lo ha fatto seguire e controllare fino a casa per poi portarlo via il 25 gennaio, tenendolo nella sede del distretto di sicurezza di Giza per ventiquattro ore.
Le forze di sicurezza egiziane vogliono sapere tutto dei contatti che ha nei sindacati, ma Giulio non vuole parlare senza la presenza un rappresentante dell’ambasciata italiana. Iniziano i primi pestaggi. Gli vengono tolti cellulare e documenti, ma non collabora.
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Entra in scena un altro responsabile: il ministro dell’Interno Magdy Abdel Ghaffar. È su suo ordine, dice l’anonimo, che Giulio viene trasferito in una sede della Sicurezza Nazionale a Nasr City e di nuovo picchiato, senza dire nulla. A quel punto interviene il capo della Sicurezza Nazionale, Mohamed Sharawy, che ottiene dallo stesso ministro l’ordine di “sciogliergli la lingua”. Per tre giorni Giulio viene torturato in modi atroci. Il testimone racconta che, per sua fortuna, spesso era incosciente, ma che non ha mai parlato e ha sempre risposto ai suoi aguzzini di essere certo che lo stato italiano non lo avrebbe abbandonato.
Siamo al 28 gennaio: la famiglia di Giulio è in Egitto per le ricerche e le autorità egiziane ripetono che non è stato arrestato e non sanno nulla del caso. Invece, quel giorno il ministro degli Interni trasferisce il caso al consigliere del Presidente, il generale Ahmad Jamal ad-Din, che ne parla direttamente con Al-Sisi: la decisione finale è di trasferire Giulio nelle mani dei Servizi segreti militari, sempre a Nasr City. Secondo l’anonimo, Al-Sisi avrebber saputo fin da subito quello che stava avvenendo e anzi, avrebbe firmato lui stesso la condanna a morte del ricercatore italiano.
Nel caos in cui è piombato l’Egitto, le stesse forze di polizia sono in lotta tra loro per dimostrare di essere i più forti e utili ad Al-Sisi. Così, i militari decidono di usare qualsiasi tortura pur di far parlare Giulio: dopo altri giorni di sevizie, il giovane muore sotto le mani dei suoi aguzzini.
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Ora c’è un corpo da far sparire. L’ex ministra Guidi (siamo al 2 di febbraio) è in Egitto a capo di una missione di imprenditore e investitori italiani e chiede notizie di Regeni. Bisogna fare qualcosa. Al-Sisi, il ministro dell’Interno, i capi dei due Servizi segreti, il capo di gabinetto della Presidenza e la consigliera per la sicurezza nazionale Fayza Abu al Naja, secondo l’anonimo, hanno già deciso cosa fare. Hanno fatto mettere il corpo di Giulio in una cella frigorifera e, ora che non possono più far finta di niente, faranno ritrovare il corpo, facendo “apparire la questione come un reato a scopo di rapina a sfondo omosessuale e di gettare il corpo sul ciglio di una strada denudandone la parte inferiore. Il corpo fu quindi trasferito di notte dall’ospedale militare di Kobri a bordo di un’ambulanza scortata dai Servizi segreti e lasciato lungo la strada Cairo-Alessandria”. Il giorno dopo viene ritrovato il cadavere martoriato di Giulio.
I dettagli delle torture
Nella lettera ci sono tre dettagli che erano noti solo agli investigatori italiani perché riscontrati solo nell’autopsia fatta a Roma.
Il primo riguarda le “bastonature sotto i piedi” a cui Giulio viene sottoposto quando è ancora nelle mani dei servizi di sicurezza, nei primi tre giorni dal rapimento.
Il secondo riguarda i “colpi con una sorta di baionetta” che riceve quando è torturato dai militari: gli esami hanno riscontrato lesioni da taglio e nessuno, a parte gli inquirenti, lo sapeva. “Viene colpito con una sorta di baionetta e gli viene lasciato intendere che sarebbe stato sottoposto a waterboarding, che avrebbero usato cani addestrati” e non avrebbero risparmiato “violenze sessuali, senza pietà, coscienza, clemenza”, scrive l’anonimo. Se sa di quella “baionetta”, forse era davvero presente mentre Giulio veniva torturato.
Il terzo sono i segni di bruciature di sigaretta su collo e orecchie. L’autopsia italiana li ha riscontrati nonostante gli avessero asportato i lobi prima di far ritrovare il cadavere.
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