Roberto Baggio compie 50 anni e lo fa, com’è sempre stato nel suo stile, con discrezione. Quasi timidezza. Un campione che tutta Italia ha amato o comunque apprezzato. Uno dei pochissimi giocatori a ricevere affetto indipendentemente dalla maglia che indossava. E non sono state poche, tra l’altro, le casacche che il Divin Codino ha cambiato nel corso della sua carriera (Clicca qui per vedere i gol più belli di Roberto Baggio).
Paradossalmente, forse sono stati proprio i tifosi della Juventus a non entrare mai completamente in sintonia con il numero 10 che iniziò a vestire il bianconero l’anno di Maifredi. Colpa del passato alla Fiorentina, di quella sciarpa raccolta allo stadio viola e del grande rifiuto di andare sul dischetto a battere quel primo rigore contro la sua ex squadra. Forse, proprio per questo non riconoscersi (e viceversa) nella Juve, il resto d’Italia è riuscito ad amarlo. Ma lui è andato avanti, deliziando gli esteti del calcio, sfiorando il Mondiale, portando a casa il Pallone d’oro. Ha vestito le maglie del Vicenza, della Fiorentina, della Juventus, dell’Inter, del Milan, del Bologna e del Brescia. Dallo scudetto alla zona retrocessione, ci ha sempre messo impegno, fatica e prodezze.
Gli è rimasta addosso la definizione dell’Avvocato Agnelli: “E’ un coniglio bagnato”. Per dire che tirava un po’ indietro la gamba, che non segnava gol decisivi, che quando le partite diventavano battaglie lui un po’ scompariva. Ma pure la definizione di ‘Raffaello’. O di ‘Nove e mezzo’. Già, un po’ bomber e un po’ fantasista. Difficilmente inquadrabile in una categoria soltanto. Il fatto stesso che tanti abbiano provato a definirlo e nessuno ci sia mai riuscito la dice lunga sulla sua grandezza. Oggi diremmo, untaggable.
Arte, quadri incompiuti, punizioni imprendibili, fughe e portieri saltati. In giro per l’Italia, ma pure per il mondo, Roberto Baggio è un brand. Come ‘O Sole mio’. Baggio è l’icona degli anni ’90, quando l’Italia dominava anche fuori dai confini nazionali. Lui è rimasto un po’ in disparte dalle vittorie, è vero, perché in fondo i grandi artisti sono pure un po’ imperfetti. Le polemiche? Ci sono state. Alla Juve, prima di venire venduto perché stava emergendo un certo Alex Del Piero. A Usa ’94, quando Sacchi lo sostituì e, in diretta tv, si lesse il suo labiale: “Ma questo è matto”. Poche, circoscritte. Forse anche perché Roby Baggio non era diventato solo buddhista, ma aveva anche incamerato alla perfezione la filosofia orientale, quella calma. Quell’attendere sul fiume che passi il cadavere del nemico.
I 50 anni di Baggio sono l’invecchiare di tutti quelli che sono cresciuti a pane e codino, quando il codino andava di moda e, in fondo, era l’unica stranezza nel look di un campione. Prima che nel mondo del calcio contasse proprio il look, la pettinatura, prima ancora che la classe. Il ‘Corriere dello Sport’ paragona Baggio a Mina: immortali. Anche se poco visibili. Fuori dal tempo. Uno ci ha messo i piedi, l’altra continua a metterci la voce. Carezze dell’anima. Per l’anima. Mezzo secolo, caro Roby Baggio, ma di cose da dire e da fare ne hai ancora tante. E nel mondo del calcio ci sarebbe ancora bisogno del tuo sapere, della tua saggezza, del tuo talento. Potresti, saresti il perfetto ambasciatore dell’Italia del pallone in giro per il mondo. Ma non lo farai perché il calcio di oggi ha poco a che fare con il tuo calcio. Con le tue pennellate di colore.