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Quella di Carlo Amato è una storia nota in Campania. Molti, nel casertano, la ricordano perché quella sera, la notte fra il 20 e il 21 marzo del 1999, erano nella sua stessa discoteca. Qualcuno la conosce perché l’ha più volte raccontata Roberto Saviano e non solo… Nessuno, però, sa com’è andata a finire. E, probabilmente, mai nessuno lo saprà. Nemmeno la sorella Rosa, a cui – da quel giorno – è cambiata la vita.
Oggi Rosa Amato è, infatti, una collaboratrice di giustizia e, se è costretta a vivere in una località protetta, con un falso nome, è perché è stata anche lei una criminale. È stata la tesoriera del clan Amato, un sodalizio criminale decisamente sui generis nato in un momento ben preciso e con uno scopo ben preciso.
«Dopo la morte di mio fratello Carlo, mio padre ha cercato di aiutare la Magistratura facendo parlare gli amici che sicuramente erano stati testimoni oculari» di quello che era successo in quella discoteca, il 20 marzo del 1999. «Ma erano tutti nel panico e l’unica cosa che dicevano era: adesso i casalesi ammazzano anche noi».
Quella sera, infatti, Carlo, 21enne, era andato, insieme agli amici, a ballare al “Disco club” di Santa Maria Capua Vetere, dove era in corso il Mak P (la festa) del liceo scientifico “E. Amaldi”. Fra quegli amici doveva essercene una particolarmente carina, talmente carina che un altro gruppo di ragazzi l’ha adocchiata e ha iniziato a importunarla.
Carlo intervenne, forse ci teneva anche lui a quella ragazza, e fino a qui accade quello che, purtroppo, succede spesso in tutte le discoteche del mondo: scoppiò una rissa. Carlo Amato faceva karate e da una rissa avrebbe saputo come uscirne. Quella volta, però, intervenne qualcuno contro cui una mossa di karate non sarebbe bastata.
«A quella festa partecipava anche il più piccolo dei figli di Sandokan (Francesco Schiavone, ndr), che all’epoca faceva il liceo scientifico. E quindi sono stati chiamati altri ragazzi, che probabilmente erano guardaspalle del figlio di Sandokan, che lo hanno rinchiuso in uno sgabuzzino e lo hanno ammazzato».
Se, quindi, nessuno parlava su quanto era successo quella notte era perché – a dire di Rosa Amato – «avevano paura dei casalesi». Così il padre, non riuscendo ad avere giustizia tramite la Magistratura si rivolse all’altro Stato: quello criminale.
«Lo scopo di mio padre era quello che le persone non dovessero avere più paura solo dei Casalesi, ma anche di lui». Così inizialmente si avvicina al clan dei Belforte, ma poi crea un suo clan. «Non essendo mai uscito il nome dell’assassino di mio fratello, mio padre capì che fare favoritismi ai Belforte non avrebbe creato alcun fastidio ai casalesi e quindi, raccogliendo intorno a se tossici e disperati, iniziò a installare slot machine nei bar, visto che all’epoca era un’attività che portava molti soldi ai casalesi».
Insomma un’attività criminale quella di Salvatore Amato volta a sottrarre potere e soldi a un altro clan. Ma neanche questo lo portò alla verità sull’omicidio del figlio. «La verità sull’omicidio di mio fratello non verrà mai fuori, a meno che non è qualche collaboratore di giustizia a dirla, perché i casalesi erano forti e saranno forti chissà ancora per quanto tempo». Soprattutto in quelle zone.
In realtà, a un certo punto, un presunto colpevole venne fuori. «Venne fuori l’identikit di Michele Della Gatta, ma la Polizia non ebbe neanche il tempo di andare a prenderlo che venne assassinato pure lui». «Un ragazzo di vent’anni che viene arrestato – aggiunge Rosa – non so per quanto tempo possa pagare un omicidio da solo».
Michele Della Gatta fu ucciso per evitare che, arrestato, potesse parlare e, quindi, presumibilmente dagli stessi assassini di Carlo Amato che, pur di proteggersi, non hanno esitato a spargere altro sangue.
Nel frattempo il clan Amato, che aveva inaugurato la sua attività criminale nel 2004, venne fermato nel 2009 con un blitz delle Forze dell’ordine, in seguito alle denunce dei commercianti. Ma certo è difficile pensare che in un contesto dove nessuno denuncia gli autori dell’omicidio di un ragazzo di vent’anni, poi vadano a denunciare per l’installazione forzata delle slot machine. «È presumibile che i commercianti siano stati minacciati dai casalesi, che così si toglievano mio padre da davanti», sostiene Rosa.
Intanto, però, l’assassino di Carlo Amato non ha ancora un nome né un volto. «Vorrei che si pentisse, vorrei che un giorno mi dicessero: quello è il volto di chi ha ammazzato tuo fratello».
Questa resta, quindi, soltanto una storia di violenza. Di inutile violenza. Una violenza che ha generato altra violenza. Una violenza che resta senza colpevoli e non importa se costoro staranno già pagando per altri reati commessi. Ciascun delitto merita un proprio colpevole. Ciascun morto ammazzato un proprio assassino.
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