Donald Trump ha mentito e sì, ci sono state interferenze della Russia sul voto, ma sul reato di intralcio alla giustizia non spetta a me decidere. Sono queste in estrema sintesi le dichiarazioni rilasciate da James Comey, ex direttore dell’Fbi, nell’audizione con la commissione Intelligence del Senato. L’ex numero uno del Bureau conferma le accuse al presidente e dichiara di essere stato cacciato per le indagini sul Russiagate: anche se non vuole sbilanciarsi sul possibile reato di intralcio alla giustizia, su cui, dice, indagherà il procuratore speciale Robert S. Mueller III, le sue parole pesano come dei macigni sul futuro di Trump alla Casa Bianca. L’ombra dell’impeachment sembra allungarsi ma Trump non ha intenzione di mollare: “Combatteremo con tutte le nostre forze“, ha dichiarato il suo legale, Marc E. Kasowitz.
La difesa di Trump è già partita. “Il presidente non ha mai chiesto direttamente o suggerito a Comey di non investigare su qualcuno“, ha voluto commentare Kasowitz al termine della lunga audizione. Il piano difensivo si sta delineando e servirà molto più che una strategia legale per non cadere.
Le parole di Comey sono state chiare, così come la sua emozione (forse studiata a tavolino, secondo molti analisti sincera) appena ha preso la parola davanti alla commissione. “Il presidente ha mentito su di me e sull’Fbi. Ha scelto di diffamare me e il Bureau che, invece, è rimane indipendente“, ha detto con tono fermo e un filo di emozione, cogliendo l’occasione per ringraziare e salutare l’Fbi visto il licenziamento lampo.
I suoi memo sulle conversazioni avute con Trump sono ora nelle mani del procuratore speciale che indaga sul Russiagate. Nel corso dell’audizione palesa la possibilità che le sue conversazioni possano essere state registrate e spera che, nel caso ci siano, vengano pubblicate come prova della sua versione. Il punto, insiste Comey, è un altro: “Perché ha voluto che parlassimo soli di Flynn nell’Ufficio Ovale, allontanando tutti i presenti?“, si chiede.
Sul Russiagate Comey ha idee più che chiare. Il senatore Richard Mauze Burr, a capo della commissione, entra subito nel vivo della questione: “Ha qualche dubbio sul fatto che la Russia abbia cercato di influenzare le elezioni?“. La risposta è secca: “Assolutamente no“.
Il tema è della massima importanza e Comey insiste su questo punto. “Si tratta di un problema che dovrebbe toccare repubblicani e democratici allo stesso modo: una potenza straniera, al massimo livello, ha lanciato un atto ostile contro il nostro Paese“. Le domande sono serrate. “La richiesta del presidente di lasciar andare Flynn era ostruzione della giustizia?“, chiede il senatore. “Non tocca a me stabilirlo, ma è stata estremamente inquietante“, la risposta di Comey.
Il passaggio è cruciale perché il reato di ostruzione alla giustizia apre la strada all’impeachment come già fu per Richard Nixon. L’ex capo dell’Fbi non si sbilancia sull’aspetto legale ma dà la sua versione dei fatti. Quella frase uscita nel corso della telefonata del 14 febbraio l’ha detta il presidente degli Stati Uniti e non può essere messa a tacere: lui ha seguito la catena di comando e ha inteso quelle parole come una “direction“, un ordine.
“Sono stato licenziato per l’inchiesta sulla Russia, perché in qualche modo avrei dovuto cambiarla. È stato il presidente a dirlo, io l’ho preso in parola“, aggiunge, rincarando la dose. Nel ricordare il motivo ufficiale del suo licenziamento, cioè il fatto che col suo comportamento aveva fatto perdere la fiducia del popolo americano nell’Fbi, Comey ha risposto in modo netto: “Quelle erano bugie, solo bugie. Il presidente ha mentito”
L’ex direttore dei Federali ha poi spiegato di non aver reagito alle pressioni perché “scioccato” e di non aver avuto il coraggio di farlo. Non ne ha potuto parlare neanche col ministro della Giustizia Jeff Sessions, anche lui sotto la lente d’ingrandimento dei federali per i suoi rapporti con Mosca e, pare, vicino alle dimissioni per le tensioni con Trump.
Il primo attacco a Trump: la difesa scritta di Comey
Donald Trump esercitò pressioni sull’ex capo dell’Fbi James Comey fin dai primi giorni della sua presidenza, arrivando addirittura a implorarlo pur di insabbiare le indagini su Michael Flynn e di non rendere pubblica l’inchiesta sul Russiagate e le influenze russe sul voto del 2016. La memoria difensiva dell’ex numero uno del Bureau arriva prima dell’audizione davanti alla Commissione Intelligence del Senato. “Ho bisogno di lealtà e mi aspetto lealtà“, avrebbe detto Trump a Comey in una delle tante discussioni che ebbero. In particolare, il New York Times cita una telefonata del 30 marzo quando Trump gli chiese cosa si potesse fare per “allontanare la nuvola” del caso Flynn che stava oscurando la sua “capacità di agire nell’interesse del paese“.
Colpiscono le parole riportate da Comey: la messa in stato di accusa di un presidente USA può arrivare per reati gravi quando non è più in grado di agire nell’interesse del paese, come hanno ricordato molti costituzionalisti ed esperti giuristi. Fu così anche per Richard Nixon, chiamato a difendersi dopo lo scandalo del Watergate che aveva affossato la sua popolarità e quindi la capacità di sedere alla Casa Bianca da Commander in Chief. La difesa dell’ex numero uno dell’Fbi, licenziato in tronco da Trump ufficialmente per la gestione del caso delle mail di Hillary Clinton, potrebbe essere decisiva per le sorti del 45esimo presidente.
Il primo tassello della difesa di Trump è stata la nomina del nuovo direttore dell’Fbi, Christopher A. Wray, annunciata con un tweet ma che il Senato deve ancora ratificare: uomo dalle “credenziali impeccabili”, come lo ha descritto lo stesso Trump, Wray è un avvocato che ha già lavorato per il dipartimento di Giustizia con la presidenza di Bush sotto le direttive dell’allora vice Comey, lo stesso che ora è chiamato a sostituire.
Nelle sette pagine preparate per l’audizione, Comey non risparmia neanche un colpo al presidente Trump: a suo dire le pressioni per fermare le indagini su Michael Flynn e i suoi rapporti con Mosca continuavano da mesi, comprese telefonate impreviste e incontri scomodi.
Il primo incontro sarebbe avvenuto il 6 gennaio alla Trump Tower a cui ne è seguito un altro a ridosso il 27 gennaio in cui Trump gli chiese “se volevo restare come direttore dell’Fbi“, come se, con la conferma del suo ruolo, il presidente volesse portarlo dalla sua parte. Fu in quella occasione che Trump pronunciò la frase sulla lealtà. “Ho bisogno di lealtà, mi aspetto lealtà”, a cui seguì la risposta di Comey: “Ci siamo guardati l’un l’altro in silenzio e ho risposto: ‘Da me avrà sempre onestà’“. “È quello che voglio: onesta lealtà“, fu la chiosa di Trump.
Nel suo memoriale l’ex direttore dell’Fbi precisa di aver trascritto la conversazione con Trump appena salito in auto, per non dimenticare nulla: una prassi inusuale, scrive, che non aveva fatto mai prima ma che gli è sembrata necessaria per non perdere nulla di quanto successo
La telefonata più importante è quella del 14 febbraio. Il giorno prima Flynn si era dimesso da Segretario alla Sicurezza e Trump chiama Comey. “Voglio parlare di Michael Flynn. È una brava persona, ne ha passate tante. Io spero che tu possa vedere chiaro e lasciar andare questa cosa“, gli chiede. Comey non vuole lasciare adito a dubbi e, nella memoria scritta, aggiunge: “Avevo compreso che il presidente mi chiedeva di abbandonare qualsiasi indagine su Flynn“.
Ci sono poi altre due telefonate, come quella del 30 marzo in cui Trump parla della “nuvola“, cioè del Russiagate che rischia di annebbiare la sua capacità di guidare il Paese.
Infine l’11 aprile, quando Trump lo chiamò di nuovo e rinnovò la sua richiesta. “Sono stato molto fedele con te, molto fedele; Abbiamo avuto quella cosa, sai“, gli disse. Comey ha chiarito di non sapere cosa intendesse con “quella cosa”, forse il mailgate di Clinton, ma non è chiaro. “Questa è stata l’ultima volta che ho parlato con il Presidente Trump“. Meno di un mese dopo, il 9 maggio, è arrivato il licenziamento.
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