La dottrina della Chiesa è semplice: il matrimonio è indissolubile. Chi si sposa e poi si unisce a una terza persona, commette adulterio. La negazione dell’Eucaristia non è una punizione, è nella natura delle cose. È quindi evidente che ammettere lo scioglimento del matrimonio al di fuori dei casi previsti dal diritto canonico sarebbe un po’ come minarne le fondamenta: difficile portare via un mattone senza far crollare tutto l’edificio. Eppure sono sempre più numerosi i fedeli che soffrono e premono per poter vivere la fede pienamente, complice l’inesorabile aumento dei divorzi nei tribunali di tutto il mondo.
Solo in Italia, stando ai più recenti dati Istat, alla fine del 2011 si contavano 1.185.522 divorziati con cifre più che raddoppiate negli ultimi quindici anni (80 divorzi ogni 1.000 matrimoni nel 1995 contro i 182 del 2011).
Ecco perché il tema dei sacramenti ai divorziati risposati è oggi al centro di un acceso dibattito: da un lato i rigoristi, preoccupati di non modificare di una virgola la dottrina, dall’altro i progressisti, propensi ad allargare le braccia alle coppie con pesanti fallimenti alle spalle che si sono rifatte una nuova famiglia.
Sul punto papa Francesco sembra essersi già espresso: “La Chiesa dev’essere come un ospedale da campo, deve accogliere tutti”. E in un certo senso lo ha fatto anche attraverso le parole del cardinale e teologo aperturista tedesco Walter Kasper, da lui incaricato di tenere la relazione introduttiva all’ultimo Concistoro straordinario sulla famiglia del 20 e 21 febbraio: “La Chiesa può trovare una nuova strada affinché un divorziato risposato, dopo un periodo penitenziale, venga riammesso ai sacramenti”. Un’inversione di rotta che le permetterebbe di riavvicinarsi al mondo reale, quello fatto di persone e non di precetti, richiamando così a sé tutti i fedeli che oggi ne sono di fatto esclusi. Ha ragione il Papa: una scelta sbagliata non può essere esente dal pentimento. Altrimenti a cosa serve la remissione dei peccati?