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Ha suscitato un comprensibile shock tra gli spettatori della 73esima Mostra del Cinema di Venezia la presentazione fuori concorso del documentario Safari, il nuovo lavoro del cineasta austriaco Ulrich Seidl che mostra gli orrori della caccia grossa in Africa da parte dei suoi connazionali, concentrandosi come suo solito nell’aberrante natura dell’uomo più che sulla denuncia sociale, per cercare di arrivare al cuore nero di coloro che scelgono questo malsano divertimento per trascorrere le loro vacanze. I numeri dell’industria della morte ci dicono d’altronde che la voglia degli occidentali di recarsi nel continente africano per uccidere elefanti, rinoceronti, leoni, giraffe e tanti altri animali resta ancora molto elevata nonostante il disgusto e la rabbia manifestata da buona parte dell’opinione pubblica internazionale. Dietro le condanne ufficiali, ancora troppi occidentali hanno voglia di sparare contro animali inermi per puro passatempo.
Seidl mostra tutto questo senza fornire giudizi sui turisti intervistati e mostrati in tutte le fasi della caccia, senza mancare di condire con sarcasmo gli aspetti grotteschi di questi uomini e donne dalla pelle bianca che ritengono così esotico andare ad uccidere animali in Africa. Un residuo di colonialismo trasportato fino al nuovo millennio, che lascia sconcertati pubblico e critica, come sempre divisi nel giudizio dei lavori del controverso regista austriaco: a noi in questa sede interessa fino ad un certo punto il giudizio estetico sull’occhio glaciale ed impassibile del regista austriaco, che non smetterà mai di dividere con le sue provocazioni, come puntualmente accaduto anche con questo lavoro, a leggere le recensioni pubblicate. Quel che è certo è che Safari tocca un nervo scoperto sulla questione della caccia, che a dispetto delle leggi, delle pubbliche condanne, degli accordi internazionali per salvaguardare le specie a rischio estinzione, continua ad attirare migliaia di persone, mettendo a rischio il delicato ecosistema della savana: pensare ad esempio che tra il 2003 e il 2013 15.518 elefanti sono stati importati nel mondo come trofei di caccia fa venire i brividi, indipendentemente dalla recente buona notizia che questi animali stanno tornando a ripopolare l’Africa, come anche i rinoceronti.
Nel film non mancano le scene forti, tra cui l’agonia di una giraffa colpita dai cacciatori, che fa tornare alla mente il caso Rebecca Francis, uno dei tanti esempi mediatici che hanno scatenato l’indignazione soprattutto sul web negli ultimi anni. ‘Che male c’è?‘ sembrano dirci lei come tutti gli altri appassionati di caccia grossa che ogni anno si recano nel continente nero per il loro divertimento. Se per parte del mondo ambientalista uccidere animali è incomprensibile già dal punto di vista alimentare, ma in ogni caso ha a che fare con un aspetto molto complesso come la salute e l’alimentazione che può ragionevolmente portare ad opinioni differenti, l’idea di uccidere animali per sport, in maniera legale ed anche illegale come dimostra l’uccisione di animali protetti nei parchi nazionali da bracconieri senza scrupoli, diventa una realtà sempre più indifendibile ogni giorno che passa: macabri trofei di morte da esibire in nome dell’ottuso, insano divertimento dell’uomo bianco. Per cambiare lo stato delle cose bisognerebbe modificare la natura dell’uomo, egoista, insensibile ed attento solo alle proprie esigenze: c’è da essere speranzosi che accada questo? Anche senza lasciarsi coinvolgere dal ghignante, feroce umorismo nero di Seidl e del suo controverso documentario, c’è di che essere pessimisti.
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