Sandro De Riccardis è un giornalista e, nel fare (bene, come pochi) il suo lavoro, è spesso arrivato a conoscere storie di comuni cittadini coinvolti in grande inchieste sulla criminalità organizzata di tipo mafioso. Comuni cittadini vittime dei clan, ribelli alla prepotenza mafiosa e, per questo, eroi sconosciuti e abbandonati. Ma anche comuni cittadini collusi con i clan, fiancheggiatori talvolta perfino inconsapevoli. Sì, perché tutti – rivela De Riccardis – possiamo agevolare i traffici malavitosi senza nemmeno accorgercene. E, così, diventiamo noi la mafia. E’ questa la teoria che ha maturato negli anni di carriera e che ora spiega nel libro “La mafia siamo noi” (AddEdiore).
«Siamo abituati a un’immagine dei mafiosi come qualcosa di diverso e distinto dalla cosiddetta parte sana della società: quando si parla di mafiosi pensiamo subito agli affiliati ai clan, a quelli che vengono arrestati nelle retate, colpevoli di intimidazioni, omicidi, sequestri, traffico di droga e non ci accorgiamo che ci sono nelle dinamiche criminali una parte di persone che fanno parte di quella che pensavamo fosse la parte sana della società.
Tante figure professionali diventano, infatti, funzionali ai clan senza fare parte della criminalità organizzata: ingegneri, avvocati, professionisti, uomini di Chiesa, medici, cancellieri di tribunali. A volte, e questo il mio libro lo vuole sottolineare, alcune persone non pensano di favorire le mafie con certi comportamenti o con certe abitudini.
Un capitolo, ad esempio, è dedicato ai giovani e di come anche loro, frequentando certe discoteche o pranzando e cenando in certi ristoranti o facendo l’happy hour nella movida delle città, diventano un inconsapevole strumento di riciclaggio perché quei locali sono stati comprati o creati con denaro sporco che veniva dai reati di mafia».
«Oggi quasi tutte le organizzazioni mafiose italiane sono cambiate, sono diventate più invisibili e si muovono sotto traccia. Non sparano più e fanno sempre meno intimidazioni eclatanti, non bruciano negozi, non uccidono imprenditori e politici.
Cosa Nostra, con le stragi di Capaci e via D’Amelio, ha firmato l’inizio della sua crisi e logoramento perché c’è stata una repressione da parte dello Stato. Quando in Germania c’è stata la strage di Duisburg, il paese si è accorto di avere la ‘ndrangheta in casa ed è iniziata una forte repressione o almeno una collaborazione con l’Italia su un fronte che era completamente sconosciuto ai tedeschi.
Le organizzazioni criminali hanno cambiato pelle e non fanno più certi atti eclatanti e, quindi, non riusciamo più a vederle anche se sono nelle nostre strade, nei nostri quartieri, nella pizzeria dove andiamo a cena o nelle discoteche in cui andiamo a ballare.
C’è un capitolo sulla Chiesa dove si racconta dell’indifferenza di parte del mondo cattolico verso i segnali che si registrano nei loro quartieri o nelle loro città che sono una manifestazione subdola, nascosta e strisciante del potere mafioso nel controllo del territorio. È più difficile vedere le mafie e il nostro compito di cittadini consapevoli dovrebbe essere di andare più a fondo e capire dove sono e come si sono trasformate».
«Quello che è cambiato è legato alla crisi economica che viviamo. Adesso non è più la mafia che va dall’imprenditore ma è l’imprenditore che va dalla mafia perché ha bisogno di capitali freschi o non riesce più a sviluppare l’azienda.
Nel libro “La mafia siamo noi” ci sono storie drammatiche di imprenditori, anche e soprattutto del Nord, che pensavano di far entrare nella propria azienda dei soci esterni e, quando si sono accorti che erano uomini dei clan, non hanno potuto fare nulla di più per mandarli via. Hanno quindi vissuto mesi e mesi di terrore, hanno perso il controllo dell’azienda e poi sono stati anche condannati perché per i magistrati non erano vittime, ma complici.
Racconto, ad esempio, la storia della Blue Call che era un grandissimo call center milanese con due proprietari milanesi che è stato completamente inghiottito e sbranato dai Bellocco, forte cosca calabrese. I calabresi usavano questa azienda come un bancomat, per pagare gli affiliati, i carcerati e i due imprenditori non sono riusciti a venirne fuori e sono stati arrestati».
«Sì, anche perché oggi la politica è più debole del passato e la mafia, piuttosto che corrompere un politico, preferisce farlo eleggere direttamente. Lo vediamo nelle ultime storie giudiziarie di Reggio Calabria con le inchieste Mammasantissima, Fata Morgana e altre che hanno evidenziato come non ci sia più la distinzione tra mafia e politica, ma c’è un gruppo e un luogo in cui si fanno le strategie, dove le mafie decide chi eleggere per aver appalti ecc..
Nel libro si parla molto della parte amministrativa. I politici, nel bene o nel male, ogni 5 anni cambiano, ma è la struttura burocratica-amministrativa il vero snodo delle macchine che permettono la gestione delle ricchezze pubbliche. È uno snodo poco indagato ma importante».
«I mafiosi forse prima di noi si sono accorti che la cosiddetta legalità o antimafia stava diventando solo un’icona da porre in vetrina, un modo per acquisire visibilità per fare carriere politiche o di altro tipo ma che dietro non aveva più il collegamento con i fatti che accadono nei territori o un impegno concreto.
Quella frase di Campanella e anche Provenzano racconta anche il fallimento di una certa antimafia, quella che si ferma ai cortei, alle urla, agli striscioni, alle bandiere con le icone di personaggi che tanto hanno fatto nella lotta alla mafia ma che rispetto a chi sostiene quelle bandiere, ha vissuto esperienze diverse e lontane, magari su un altro territorio.
Noi dobbiamo essere grati a Falcone e Borsellino, a Peppino Impastato e a tutti gli altri personaggi storici dell’antimafia, però c’è stato un momento in cui bastava andare in giro con una spilletta o una maglietta con le loro foto e si poteva pensare che l’antimafia fosse quella. Invece quelle persone hanno vissuto trenta, quarant’anni fa, in posti lontani, in ambiti criminali diversi dai nostri.
Quello che cerco di dire nel libro è che quarant’anni o trent’anni dopo, non in Sicilia ma a Milano, a Lecce, a Napoli, a Belluno, bisogna concentrarsi su quello che accade nei nostri territori e non fermarsi a elevare dei fantocci che rischiano di non aiutarci nella lotta alla mafia».
«Di per sé questa frase è condivisibile, nel senso che l’antimafia dei fatti è quella di Don Pino Puglisi che a Brancaccio aiutava i bambini, i genitori disoccupati o chi aveva parenti in carcere. Non faceva grandi discorsi, non partecipava a grandi convegni ma si impegna sul territorio.
È quella che nel libro chiamo “l’antimafia delle piccole cose”, che è quella che fa più male ai clan perché gli toglie il controllo del territorio, magari sgretolando famiglia dopo famiglia il consenso, parchetto dopo parchetto magari lì dove si spacciava e ora magari si gioca a calcio.
È questa l’antimafia più concreta, quella più utile: è quella del pasticcere di Palermo che si è visto chiedere una tangente da uno dei paladini dell’antimafia e che ha risposto che, per lui, l’antimafia è pagare correttamente e puntualmente i dipendenti senza fare nero ed evadere le tasse».
«Il giornalismo è un po’ la sintesi di tutto, cioè dovrebbe essere quella cosa che ci aiuta a capire cosa sta accadendo in quel territorio, le dinamiche che si stanno sviluppando, fare conoscere agli altri o a chi lavora e non può fare questo esercizio in modo che condivida.
Il compito del giornalismo è raccontare e il libro nasce da questa esperienza, dall’essersi accorto, dopo una retata, dove l’unico imprenditore al Nord che aveva denunciato i clan, portando a denunce e arresti, non è stato aiutato da nessuno: non una telefonata dal sindaco, dall’associazione dei commercianti, nessuna associazione antimafia l’ha chiamato.
Io mi sono accorto del suo nome e della sua storia nell’ordinanza d’arresto dell’operazione “Crociata”, nel nord del comasco: sono andato a trovarlo e da lì è nata una bellissima intervista che è servita a raccontare tutta la sua storia di paura, di terrore, con i clan che gli hanno bruciato in una notte 14 macchine nell’officina dove lavorava e tutto il suo travaglio interiore per decidere di andare a denunciare.
Alla fine lui è riuscito ad avere giustizia, a riavere l’azienda e adesso continua a lavorare. Tirare fuori queste storie è il compito del giornalista, raccontare questi esempi che poi sono anche l’altra faccia della vicenda. Nel libro ho raccontato anche storie di questo tipo, di persone che si impegnano, di giovani consapevoli, di imprenditori che hanno denunciato».
«Quella che piace alla mafia è proprio quella della sola immagine, del contrasto a parola che concretamente non fa nulla per contrastare i clan o addirittura dialoga con i clan e ha dei rapporti con i clan.
Questa antimafia serve a farsi pubblicità, come dice Rosy Canale, che era una delle tante icone dell’antimafia calabrese che poi è stata condannata in primo grado per aver utilizzato i fondi per questioni private piuttosto che per la sua associazione “Le donne di San Luca”.
Al momento è stata condanna solo in primo grado e quindi va considerata innocente ma comunque emerge la figura di una persona che all’esterno racconta il suo impegno per le popolazioni devastate dalle faide di ‘ndrangheta ma che, da quanto emerso dalle intercettazioni e dalle indagini dei Carabinieri, spendeva i soldi per comprare la Smart alla figlia, i vestiti al padre, borse e altro. Nelle intercettazioni parlava della “favoletta della legalità”.
Questa è l’antimafia che aiuta la mafia o che comunque la lascia indifferente: non a caso nel libro il capitolo si intitola così».
«Non credo ci sia un confine così netto. Rispetto al passato o al Sud Italia, c’è una maggiore sinergia tra imprenditori e mafiosi.
Da un lato c’è proprio un ruolo attivo dei clan che, avendo il problema di riciclare somme ingentissime di denaro, non sanno come fare. Dall’altra parte ci sono imprenditori che hanno bisogno di capitali freschi, che magari vivono un periodo di crisi. Si incontrano due esigenze diverse e ci ritroviamo, soprattutto nelle grandi città, con interi settori a infiltrazione dei clan.
È un fenomeno silenzioso, che non fa impressione e non colpisce socialmente come l’esplosione di una macchina o una scarica di kalashnikov sulla saracinesca, o come un omicidio o una faida che dura per mesi. Nessuno si accorge che sta succedendo una violenta conquista dell’economia da parte dei clan».
«La mafia sociale arriva quando la mafia non ha più bisogno di essere militare, o meglio quando quella militare ha già il controllo del territorio e non ha più bisogno di sparare o intimidire ed è già riconosciuta come un potere.
In quel momento, i cittadini vedono i clan di quel territorio come punto di riferimento e non lo Stato, quindi se devono chiedere, si rivolgono più a loro, dal cosa fare con la macchina rubata a chi riesce a dare lavoro ai tuoi figli o a garantire la sicurezza del tu quartiere anche nella gestione dell’immigrazione».
«Non è facile avere le prove o capirlo. Nel libro ci sono vari esempi come quello dei ragazzi del Corto Circuito di Reggio Emilia che facevano la festa del liceo in una discoteca e si sono accorti che i gestori del locale erano finiti in una relazione prefettizia sull’infiltrazione dei clan e sono andati avanti a indagare, tanto che le loro scoperte sono finite anche nell’inchiesta “AEmilia”.
Basta guardarsi intorno: ci stupiamo di ristoranti che sbucano dal nulla con personaggi che non hanno un passato imprenditoriale, ragazzi che sembrano essere imprenditori di successo che si sono fatti da soli, ristoranti enormi dove non ci va nessuno a mangiare o che certe sere restano vuoti e ci chiediamo come facciano ad andare avanti. A volte bisogna seguire il metodo del giornalista, seguire l’intuito e dare risposte ai dubbi.
È anche importante una cosa che, secondo me, è un grave vizio delle associazioni anti-mafia, cioè quello di non leggere fino in fondi gli atti giudiziari che a un certo punto diventano pubblici e che contengono molte più cose di quello che si legge sui giornali: nelle centinaia di pagine delle inchieste si trovano la via, il negozio, i legami.
Un’alleanza tra i cittadini, i giornalisti che maneggiano questi documenti o le forze dell’ordine o gli avvocati di parte civili che difendono le vittime può essere importante.
Fare rete aiuta a conoscere quello che succede».
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