La funzione indiscussa che sta all’origine del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è la fortificazione delle strutture e delle risposte statali in campo sanitario. La pandemia di Covid-19, da cui il mondo sembra faticosamente stare uscendo, ha posto sotto i riflettori europei la centralità di investire sulla salute.
Il piano italiano prevede in tal senso lo stanziamento di 7 miliardi di fondi UE per il potenziamento dell’assistenza sanitaria territoriale (Missione 6 del PNRR). Con l’approvazione del decreto ministeriale 71, “Modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio sanitario nazionale”, il governo Draghi ha fissato la ripartizione di quote e parametri da raggiungere.
Stando al decreto, l’attuazione delle nuove misure richiederà l’assunzione di circa 30 mila infermieri da destinare principalmente: da un lato, all’istituzione dell’“infermiere di comunità”, ossia alla creazione di figure assistenziali fino ad averne una ogni 3 mila abitanti; in secondo luogo, gli investimenti dovrebbero coprire l’ingaggio di personale per le nuove “case di comunità”, delle strutture ponte tra la cittadinanza ed il sistema sanitario nazionale.
Eppure si ravvisa un grave problema organizzativo-logistico: la formazione degli infermieri attualmente possibile non è in grado di coprire i nuovi fabbisogni assuntivi.
Ogni anno ben oltre un terzo di coloro che fanno domanda di ammissione a corsi universitari in materie sanitarie e di cura vengono respinti al test d’ingresso per l’impossibilità degli stessi enti formativi di accogliere l’intera mole di potenziali studenti.
“Se le università avessero accolto le richieste di tutti gli aspiranti infermieri, con il corso universitario di tre anni avremmo avuto oggi almeno 14 mila nuovi infermieri” – così si rammarica Uneba, l’organizzazione di categoria del settore socio-sanitario.
Troppo spesso si tende a non considerare la profonda interconnessione dei vari aspetti che regolano il funzionamento delle società. Al fine di migliorare le prestazioni mediche non è sufficiente elargire fondi esclusivamente verso gli istituti propriamente dedicati alla salute, è quantomai importante avere uno sguardo d’insieme, olistico (come olistica è la dinamica sociale del resto).
Ergo non si può pensare di foraggiare gli ospedali senza aver dato modo alle strutture educative di assolvere adeguatamente alla formazione del personale necessario ad occupare poi quelle medesime istituzioni. Urge quindi predisporre misure indirizzate al sistema universitario, ma finalizzate al comparto sanitario, in un costante e mutuo sostegno tra i vari corpi sociali.
Insomma per ora si profila un circolo vizioso molto italiano in cui a rimetterci, come sempre accade, saranno i disoccupati e precari sanitari nonché i cittadini più fragili e bisognosi di un sistema medico efficiente e ramificato.
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