Doveva rappresentare una fortuna per la regione e il Paese intero, ma dopo due decenni di speranze ed illusioni legate al petrolio in Basilicata, di tutta la vicenda ad emergere sono due filoni di inchiesta della procura di Potenza, che gettano più di un’ombra sull’oro nero lucano. Uno scandalo che colpisce tanto l’immagine quanto i reali interessi economici del Paese, così forte da portare alle immediate dimissioni del ministro Federica Guidi dal dicastero dello Sviluppo Economico, in seguito alla pubblicazione di alcune intercettazioni imbarazzanti tra lei e il suo compagno Gianluca Gemelli, coinvolto nelle indagini. Proviamo ad entrare maggiormente nei dettagli della vicenda partendo dall’inchiesta dei magistrati, per comprendere cosa lega l’estrazione del petrolio al traffico dei rifiuti illeciti, e i rischi ambientali in gioco, sulla base si quanto emerge dalle carte. Un viaggio dentro le promesse tradite e i timori di un intero popolo.
Se nelle aule dei tribunali si accerteranno le eventuali prove di colpevolezza dei personaggi coinvolti, indipendentemente dalla vicenda in sé ad uscire sconfitto ancora una volta pare proprio essere l’ambiente, fanalino di coda negli interessi della classe dirigente nostrana, dalla politica agli imprenditori. Tutto questo proprio alla vigilia di un referendum sulle trivelle in mare che molti vorrebbero boicottare attraverso l’astensione, e che vede ancora una volta tanti poteri trasversali voler salvaguardare il petrolio nel nome del profitto, dietro il paravento dell’autonomia energetica e della salvaguardia dei posti di lavoro.
L’inchiesta giudiziaria
Lo scandalo nasce da un’inchiesta della procura di Potenza suddivisa in due filoni, il primo sul Centro Olio in Val d’Agri a Viggiano dell’Eni, dalle implicazioni prettamente economiche ed ecologiche, l’altro sull’impianto estrattivo della Total a Tempa Rossa, di natura maggiormente politica e che ha portato appunto alle dimissioni del ministro Guidi. A seguito delle indagini sono state poste agli arresti domiciliari dai carabinieri per la tutela dell’ambiente sei persone, per ‘plurime condotte di concussione e corruzione‘, come si legge nelle carte: sono Rosaria Vicino, ex sindaco del Pd di Corleto Perticara, Vincenzo Lisandrelli, coordinatore ambiente del reparto sicurezza e salute all’Eni di Viggiano, Roberta Angelini, responsabile Sicurezza e salute dell’Eni a Viggiano, Nicola Allegro, responsabile operativo del Centro oli di Viggiano, Luca Bagatti, responsabile della produzione del distretto meridionale di Eni, e Antonio Cirelli, dipendente Eni nel comparto ambiente. Il giudice ha anche stabilito il divieto di dimora per l’ex vicesindaco, Giambattista Genovese, e per un dirigente della Regione Basilicata, Salvatore Lambiase.
Nel secondo troncone d’inchiesta le accuse riguardano l’affidamento di appalti e lavori riguardanti il giacimento ‘Tempa Rossa’ della Total, e fra gli indagati risulta coinvolto Gianluca Gemelli, imprenditore e compagno di Federica Guidi. Gemelli è accusato di traffico di influenze illecite perché ‘sfruttando la relazione di convivenza che aveva col ministro allo Sviluppo economico, indebitamente si faceva promettere e otteneva da Giuseppe Cobianchi, dirigente della Total, le qualifiche necessarie per entrare nella ‘bidder list delle società di ingegneria’ della multinazionale francese, e partecipare alle gare di progettazione ed esecuzione dei lavori per l’impianto estrattivo di Tempa Rossa‘. Ma quello che dalla nostra prospettiva ci interessa maggiormente è invero il primo filone, il traffico di rifiuti illeciti che coinvolgerebbe personalità di spicco dell’Eni e della politica locale.
Traffico di rifiuti
La parte dell’indagine che riguarda presunti illeciti nella gestione dei reflui petroliferi al Centro Olio in Val d’Agri a Viggiano coinvolge in prima persona l’Eni, che in un comunicato ‘prende atto dei provvedimenti adottati dall’autorità giudiziaria. E ha provveduto alla sospensione temporanea dei lavoratori oggetto dei provvedimenti cautelari e sta completando ulteriori verifiche interne‘. Al momento dunque risulta sospesa la produzione di greggio, stimata in circa 75mila barili al giorno, con l’azienda che assicura massima collaborazione con i magistrati in attesa del dissequestro dei beni. Le accuse ai sei indagati per cui sono scattate le misure cautelari sono piuttosto gravi, poiché riguarda una loro diretta responsabilità nelle ‘attività organizzate per il traffico e lo smaltimento illecito di rifiuti‘, si legge ancora nell’ordinanza.
In base a quanto affermano i magistrati titolari dell’inchiesta, i dirigenti dell’impianto Eni di Viggiano erano consapevoli dei problemi emissivi, ossia uno sforamento sistematico dei limiti delle emissioni di Cov, i composti organici volatili, nell’atmosfera: si legge testualmente che i dirigenti ‘cercano di ridurre il numero di comunicazioni sugli sforamenti invece di incidere direttamente sulla causa del malfunzionamento o dell’evento, allo scopo di non allarmare gli enti di controllo‘. Inoltre i rifiuti pericolosi venivano catalogati come non pericolosi in maniera del tutto arbitraria, e di conseguenza anche il trattamento delle scorie non era adeguato, con quali danni ambientali è facile immaginare. L’avvelenamento di un territorio che era stato paventato da molte associazioni e una parte consistente dell’opinione pubblica, che temeva le speculazioni dietro l’abbaglio del grande miraggio del petrolio lucano, sembra essere diventata realtà.
Ipotesi disastro ambientale
Con il passare dei giorni si allarga l’inchiesta e avanza l’ipotesi di disastro ambientale tra le accuse di reato per gli indagati. Tra questi ultimi risulterebbe anche il Capo di Stato Maggiore della Marina, l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, per un presunto traffico di materiale inquinante nell’attività dell’autorità portuale di Augusta, in Sicilia: il reato ipotizzato è quello di associazione a delinquere finalizzata al traffico di influenze e per concorso in abuso d’ufficio. In merito alle accuse, l’ammiraglio chiarisce in una nota diffusa a mezzo stampa: ‘Non conosco sulla base di quali fatti il mio nome venga associato a questa vicenda. La cosa mi sorprende e mi amareggia, e tutelerò la mia reputazione nelle sedi opportune‘.
Tornando alla vicenda Val d’Agri, si fa strada l’ipotesi di accusare gli indagati del reato di disastro ambientale, dopo che sono emersi alcuni dettagli sul traffico di rifiuti illeciti: il materiale veniva sistematicamente catalogato con codici fasulli in modo da rendere innocue sostanze altamente pericolose. Ma secondo l’Eni ‘lo stato di qualità dell’ambiente, studiato e monitorato in tutte le sue matrici circostanti il Centro Olio di Viggiano è ottimo secondo gli standard normativi vigenti‘, che cita i risultati di alcuni ‘studi commissionati ad esperti di conclamata esperienza professionale ed autorevolezza in campo scientifico sia a livello nazionale che internazionale‘.
Lo scontro politico nel governo
Con il trascorrere dei giorni, emerge dalle intercettazioni uno scontro politico all’interno del governo che non coinvolge solo l’oramai ex ministro Guidi, ma una fitta rete di trame, dossier e ricatti in cui vengono citati altri ministri e personalità illustri. In una telefonata tra Valter Pastena, direttore generale della Ragioneria generale dello Stato, e il compagno della Guidi Gianluca Gemelli, si parla ad esempio di rivelazioni contro il ministro Graziano Delrio, foto compromettenti che ritrarrebbero il ministro in compagnia di esponenti della ‘ndrangheta in Emilia Romagna, ai tempi in cui Delrio era sindaco di Reggio Emilia. In un altro momento Gemelli illustra all’imprenditore Franco Broggi le pressioni che sta facendo alla compagna per sbloccare il famoso emendamento, e di come vuole crescere nel business del petrolio, in altre intercettazioni vengono fatti i nomi di persone considerate avversarie dei progetti degli affaristi, mentre Guidi definisce il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan l’uomo della lobby dei petrolieri. Più che un governo un covo di vipere, stando a quanto si desume dalle intercettazioni.
Petrolio in Basilicata: un sogno di ricchezza e l’incubo ecologico
Era la fine degli anni Novanta del secolo scorso quando si aprì la prospettiva di un ‘Texas in Lucania’, come venne pomposamente presentata la scoperta di giacimenti di petrolio in Basilicata. Il sogno di ricchezza contagiò molti, si disse che l’Italia avrebbe potuto non solo raggiungere un fabbisogno energetico tale da limitare le costose importazioni estere, ma in questo modo avrebbe creato le premesse per un serio sviluppo e una crescita economica di una regione, che come l’intero Mezzogiorno, è afflitto da disoccupazione, carenze infrastrutturali e un ritardo generalizzato dal punto di vista del Pil. L’indotto del petrolio lucano è stato stimato in una forbice che va dai 50 ai 70 milioni l’anno, ma questi soldi che entrano nelle casse della Regione non hanno portato quasi nulla dal punto di vista dello sviluppo interno, poiché il denaro viene impiegato per tappare i buchi di bilanci e per sanare le continue emergenze locali, ricevendo i cittadini al massimo un risparmio di 100 euro sulla benzina. E l’ambiente?
Sono circa una quarantina i pozzi attivi in Basilicata, e in questi 20 anni circa di attività sono aumentate le paure dei cittadini, con molti sindaci dei paesi limitrofi che denunciano una totale assenza di monitoraggio ambientale. Travolto anche il sogno di fare della Lucania un modello di sviluppo alternativo fatto di agricoltura biologica, specialità tipiche e turismo naturalistico, dopo che il più grande impianto estrattivo europeo su terraferma è stato costruito nel bel mezzo del Parco Appennino Lucano. Cittadini ed associazioni puntano il dito contro Regione e Arpab, l’Agenzia regionale per l’ambiente, sostenendo che questi enti non abbiano mai fornito risposte rassicuranti sulla tutela della salute pubblica e sulla sicurezza ambientale, mentre l’Eni ha sempre parlato di scarsa conoscenza della popolazione su quanto avviene al Centro di Viggiano per allontanare qualsiasi timore: ‘Un sistema di controllo puntuale ed efficiente è la migliore assicurazione sui nostri investimenti, la nostra forma di tutela più forte, possibile che la gente non lo capisca?‘, dichiarava a Repubblica qualche anno fa Enrico Cingolani, vice presidente esecutivo dell’Eni per la Regione Europa Meridionale e Orientale. La verità che tutta l’opinione pubblica lucana temeva sulla questione forse è celata proprio tra le carte dell’inchiesta giudiziaria.
Tempa Rossa: progetto strategico o rischio ecologico?
Intorno al caso caso Tempa Rossa si sta consumando una sorta di scontro ideologico tra chi, come il premier Matteo Renzi, vede nell’impianto della Total un progetto strategico di rilancio del Meridione, che permette di creare posti di lavoro e combattere la disoccupazione cronica del Mezzogiorno, e chi invece ipotizza gravi rischi ecologici senza che l’impianto abbia alcun interesse nazionale, al contrario di quanto sostiene l’esecutivo. A denunciare questo secondo aspetto è ad esempio il partito dei Verdi, sostenendo che ‘è incomprensibile come questa infrastruttura sia stata classificata di interesse strategico nazionale dal momento che tutto l’olio estratto verrà esportato. L’estrazione del petrolio Tempa Rossa conviene solo a Total‘, come dichiara il presidente Angelo Bonelli: una volta in funzione, l’impianto produrrà 2,7 milioni di tonnellate di petrolio l’anno, che devono poi essere trasferite attraverso un oleodotto a Taranto, e infine caricate su novanta petroliere, con gravi rischi, sostengono ancora i Verdi, di ‘drammatici costi ambientali ed economici per le comunità locali‘.
Emergono dubbi anche dal punto di vista economico, visto che le royalties italiane sono tra le più basse al mondo: 10 per cento sul valore del prodotto offshore, 7 sul resto. Dunque a chi conviene il centro di Tempa Rossa a parte per l’azienda? La conclusione di Bonelli è che ‘Total sta attuando una politica di colonizzazione delle risorse naturali della Basilicata: la società estrae il petrolio, se lo porta a casa sua e lascia l’inquinamento e i rifiuti petroliferi ai lucani e ai tarantini‘. Il governo Renzi, e la parte dell’opinione pubblica che è a suo favore, sostiene che a fronte della modesta quantità di petrolio estratta, la cui esportazione aiuta comunque a bilanciare le importazioni di greggio, l’aspetto realmente determinante è la creazione di posti di lavoro. Sbloccare le imprese private è cosa doverosa per qualsiasi governo, ma il fronte ambientalista preferirebbe che si investisse sulle rinnovabili piuttosto che su una sostanza altamente inquinante come il petrolio, e per giunta presente in quantità così limitate.
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