Massimo Giuseppe Bossetti è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. La Corte d’Assise di Bergamo lo ha ritenuto colpevole della morte della 13enne di Brembate il murato di Mapello: a inchiodarlo la prova del DNA, quelle tracce ritrovate sugli slip della ragazzina che hanno portato gli inquirenti fino a lui. L’accusa è soddisfatta della sentenza, i genitori hanno espresso la loro soddisfazione, mentre la difesa si prepara all’Appello. La decisione dei giudici non sembra aver cancellato i tanti dubbi dell’opinione pubblica su un caso che ha scosso tutti e che solo ora, a distanza di anni da quel 26 febbraio 2011, quando il corpo della 13enne venne ritrovato nel campo di Cignolo d’Isola, sembra aver trovato una prima risposta. Molte domande sono ancora senza risposta ed è per questo che ci siamo rivolti agli avvocati dell’associazione Ddiritto, da anni impegnate contro la violenza di genere, per capire una sentenza che non sembra convincere tutti.
“È una sentenza preannunciata e quasi scontata visto i costi molto alti e i tempi lunghi dell’indagine. In ogni caso mi sembra una condanna molto dura e pregiudizievole”, ci spiega Francesca Passerini, avvocato e ideatrice di Ddiritto. Per capire cosa ha spinto la Corte d’Assise di Bergamo a prendere questa decisione saranno decisive le motivazioni. “Solo allora potremmo capire nei dettagli la sentenza“, ci conferma.
A rendere già ora molto complessa la condanna di Bossetti sono due cose: la mancanza di un movente e la mancata ricostruzione dell’intera dinamica dei fatti. “Il movente può non essere fondamentale per la ricostruzione del delitto: lo è per la logica di un fatto che, di per sé, non ha logica“, come è appunto l’omicidio di una ragazzina di 13 anni, ci spiega Maria Battaglini, avvocato penalista. Anche senza movente è possibile arrivare a una sentenza, ma nel caso di Yara manca anche parte della ricostruzione della dinamica. “Non sappiamo come e quando Bossetti si sarebbe mosso, per esempio. Sono vuoti probatori ed è un bel problema su cui la difesa dovrà lavorare“.
Da una parte dunque non c’è un chiaro movente e una precisa ricostruzione di come sono andate le cose. Dall’altra però ci sono elementi inoppugnabili contro Bossetti. “C’è la prova schiacciante del DNA, il ritrovamento delle fibre del rivestimento del suo furgone sul cadavere di Yara, nonché la posizione del cantiere dove lo stesso Bossetti lavorava, e la mancanza di un alibi“.
Si tratta di prove che pesano come un macigno e che inchiodano il muratore di Mapello, a partire da quelle tracce di Dna trovate sugli slip e i leggins della 13enne, su cui, conferma la Battaglini, non ci sono dubbi. “Il DNA dà una certezza. Insieme alle fibre ritrovate sul corpo di Yara, è un elemento centrale per la Procura“.
Il vero problema è il tempo intercorso tra la scomparsa di Yara e il ritrovamento del cadavere che è rimasto tre mesi nel campo di Chignolo d’Isola. “In quei tre mesi può essere successo di tutto su quel cadavere“, cosa che spiegherebbe le difficoltà di ricostruire con esattezza cosa successe quel 26 novembre 2010, quando Yara scomparve.
Il fatto che Bossetti abbia fatto un ultimo appello chiedendo di rifare il test è da prassi, perché “si cerca di far breccia sui giurati“. Sulla possibilità invece che si possa rifare l’analisi del DNA, ci sono moltissimi dubbi. “È una concessione che in Appello viene fatta molto raramente e solo se si dimostra che l’analisi è stata fatta male in prima istanza“, conclude l’avvocato.
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