Uno stupro di gruppo che diventa un “discutibile momento di debolezza e fragilità” e che termina con l’assoluzione in Appello dei ragazzi, tanto da spingere la vittima a scrivere ai giudici. La vicenda della violenza avvenuta alla Fortezza da Basso a Firenze rivela, per l’ennesima volta, le difficoltà che devono affrontare le donne vittime di violenza sessuale. Il fatto è avvenuto nel 2008: una giovane di 23 anni ebbe rapporti sessuali con sei ragazzi, tra i 20 e i 25 anni, in un’auto parcheggiata davanti alla Fortezza. La scelta di denunciare quanto subito, il primo processo che si conclude con la condanna a quattro anni e mezzo di carcere, perché i giovani abusarono dell’inferiorità fisica e psichica della donna, forse ubriaca. Poi la sentenza in secondo grado che ribalta il tutto e che punta il dito contro la giovane in quella che viene definita dai giudici una vicenda “incresciosa. Oggi, quella ragazza parla con una lunga lettera pubblicata dal blog ‘Al di là del Buco – verso la fine della guerra fredda (e pure calda) tra i sessi’: “Avete giudicato me, non la violenza che ho subito”.
La vicenda è rimbalzata negli anni sui social network e i media locali. Una festa che si conclude all’interno di una macchina, con rapporti sessuali tra la giovane e altri sei ragazzi. Poi la scelta di denunciare la violenza subita, il processo e la condanna in primo grado; infine l’Appello, con i giudici che negano sia avvenuta violenza. Secondo i magistrati, quello è che avvenuto in quell’auto è “increscioso, non encomiabile”, ma “penalmente non censurabile”. In parole povere, la ragazza si sarebbe pentita di quella sera denunciando i ragazzi, quasi a “rimuovere” quello che poteva essere un “discutibile momento di debolezza e fragilità”.
Difficile credere che nel 2015 si possano leggere ancora sentenze che colpevolizzano la vittima di uno stupro per lo stile di vita. Invece, è proprio quello che è successo a Firenze. Nelle quattro pagine di motivazione, i giudici sottolineano la “vita non lineare” della giovane, come ricorda al Fatto Quotidiano la sua legale, l’avvocato Lisa Parrini.
Il fatto di essere dichiaratamente bisessuale, di avere avuto “due rapporti occasionali, un rapporto di convivenza e uno omosessuale”, hanno convinto i giudici che il “suo comportamento ha dato modo ai ragazzi di pensare che fosse consenziente”. Gli stessi magistrati, in un passaggio della sentenza, la definiscono “ un soggetto fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali di cui nel contempo non era convinta”. Da qui l’assoluzione dei sei ragazzi che hanno “mal interpretato” il suo comportamento e che alla fine non sia riuscita a reagire al “presunto dissenso”, rimanendo “in balia del gruppo”.
La lettera della vittima
Una vicenda dolorosa, che ha cambiato la vita della giovane, e che si è conclusa con un nulla di fatto dopo 7 anni di processo. Alla fine, la colpevole sarebbe lei, per via di una “vita non lineare”. A queste parole ha voluto rispondere direttamente la giovane, con una lunga lettera pubblicata sul web.
“Vorrei riuscire a scrivere qualcosa che abbia un senso ma non posso perché un senso, questa vicenda, non ce l’ha. Sono io la ragazza dello stupro della fortezza, sono io. Esisto”, scrive. Ha deciso di reagire anche solo con le parole “nonostante abbia vissuto anni sotto shock, sia stata imbottita di psicofarmaci, abbia convissuto con attacchi di panico e incubi ricorrenti, abbia tentato il suicidio più e più volte, abbia dovuto ricostruir a stenti briciola dopo briciola, frammento dopo frammento, la mia vita distrutta, maciullata dalla violenza: la violenza che mi è stata arrecata quella notte, la violenza dei mille interrogatori della polizia, la violenza di 19 ore di processo in cui è stata dissezionata la mia vita dal tipo di mutande che porto al perché mi ritengo bisessuale”.
La sentenza l’ha catapultata in un nuovo incubo. “Come potete immaginare che io mi senta adesso? Non riesco a descriverlo nemmeno io. La cosa più amara e dolorosa di questa vicenda è vedere come ogni volta che cerco con le mani e i denti di recuperare la mia vita, di reagire, di andare avanti, c’è sempre qualcosa che ritorna a ricordarmi che sì, sono stata stuprata e non sarò mai più la stessa”. Tutto questo è una sorta di “supplizio di Tantalo”. “La memoria è una brutta bestia. Nel corso degli anni si dimenticano magari frasi, l’ordine del prima e dopo, ma il corpo sa tutto. Le sensazioni, il dolore fisico, il mal di stomaco, la voglia di vomitare, non si dimentica”, ricorda.
Il punto centrale, scrive, è che “’la vittima deve essere credibile‘. Forse se quella volta avessi inghiottito più pasticche e fossi morta sarei stata più credibile? Forse non li avrebbero assolti? Essere vittima di violenza e denunciarla è un’arma a doppio taglio: verrai creduta solo e fin tanto che ti mostrerai distrutta, senza speranza, finché ti chiuderai in casa buttando la chiave dalla finestra, come una moderna Raperonzolo. Ma se mai proverai a cercare di uscirne, a cercare, pian piano di riprendere la tua vita, ti sarà detto ‘ah ma vedi, non ti è mica successo nulla, se fossi stata veramente vittima non lo faresti’”.
Sul banco degli imputati è finito il suo stile di vita, non la violenza e chi l’ha perpetrata. Le è stato detto che aveva una “condotta sregolata, una vita non lineare, una sessualità ‘confusa’”, l’hanno accusata di essere “un soggetto provocatorio, esibizionista, eccessivo, borderline.” Tutto questo perché, continua, “sono bisessuale dichiarata, perché ho convissuto col mio ragazzo un anno prima che succedesse tutto ciò”, ma anche “perché sono femminista e attivista lgbt e fin dai 15 anni lotto contro questo schifo di patriarcato che oggi come sette anni fa, cerca di annientarmi come ha fatto e fa continuamente, ovunque”.
“Per essere creduta e credibile come vittima di uno stupro non bastano referti medici, psichiatrici, mille testimonianze oltre alla tua, le prove del Dna, ma conta solo il numero di persone con cui sei andata a letto prima che succedesse, o che tipo di biancheria porti, se usi i tacchi, se hai mai baciato una ragazza, se giri film o fai teatro, se hai fatto della body art, se non sei un tipo casa e chiesa e non ti periti di scendere in piazza e lottare per i tuoi diritti, se insomma sei una donna non conforme, non puoi essere creduta”.
La sentenza l’ha offesa “come donna, come amica”, visto che il “capetto del gruppo” era un suo amico; è stata offesa “dagli avvocati avversari e dai giudici come bisessuale e soggetto lgbt, che hanno sbeffeggiato le mie scelte affettive e le hanno viste come spregiudicate”. Anche la “manifestazione contro la violenza sulle donne è stata vista come ‘eccessiva’ e non idonea a una persona vittima di violenza, essendomi mostrata troppo forte”.
Alla fine, conclude, “abbiamo perso tutti”. Da parte sua, continuerà a lottare, non si arrenderà, “per ripetere al mondo che la violenza non è mai giustificabile, indipendentemente da quale sia il tuo lavoro, che indumenti porti, quale sia il tuo orientamento sessuale“.