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Siamo pronti per un Presidente della Repubblica donna?

Bonino, Finocchiaro, Severino o Cancellieri? Quale di queste donne sarebbe la più adatta a ricoprire oggi il ruolo di Presidente della Repubblica? I loro nomi circolano nelle trasmissioni politiche e sui dibattiti per l’elezione di capo dello stato. Gli spettatori di SkyTG24 oggi votano la sola Finocchiaro col 6% circa di preferenze, mentre per il Movimento 5 stelle solo una donna, Lorenza Carlassare. Sono questi dei giorni importanti per il nostro Paese che si trova in una fase storico-economica cruciale, densa di eventi che potrebbero cambiare le vicende del nostro continente e il nuovo presidente, chiunque sarà, si troverà ad affrontare questi eventi non senza difficoltà.

Non spetta a me disegnare il profilo dell’individuo più adatto a ricoprire questa carica, ma mi voglio soffermare a riflettere sulla questione che si pone ogni volta: siamo pronti per un Presidente donna? La questione non è semplice come sembrerebbe, o perlomeno sarebbe semplice se avessimo un alto concetto della parità di genere nel nostro Paese. Se così fosse, questa sarebbe una non-domanda, poiché ci concentreremmo sulle qualità morali di chi rappresenterà il nostro stato a prescindere dal sesso, ma il fatto che continuiamo a porcela vuol dire che no, non siamo per nulla pronti per un Presidente donna. Da femminista convinta mi dico che sarebbe giusto, ma devo affrontare il problema al suo nocciolo. La carica di Presidente della Repubblica dovrebbe, a mio parere, trovarsi a coronamento di una carriera politica e lavorativa degna di nota, che abbia evidenziato la statura morale dei candidati. Ma come si fa ad avere una carriera ricca e lunga se per una donna è già più difficile avere una carriera? I presidenti passati sono stati dirigenti di partito, ministri in ruoli cruciali, presidenti del consiglio, della Camera o del Senato. Ma quante donne hanno rivestito queste cariche? Ci sono molti ministri, tre presidenti della Camera, nessuna al Senato, ma non esiste una figura che comprenda tutto questo cursus honorum in sé. Anche ai vertici aziendali, i rapporti dell’Unione Europea ci informano di una situazione molto al di sotto della media europea. Sono membri di vertici aziendali l’11% delle donne, con una media del 15,8%. In Europa il 3,3% delle donne sono Presidenti di aziende e il 2,4% è amministratore delegato; in Italia entrambi i dati sono dello 0%. Le donne rappresentano il 12,9% dei direttori non esecutivi delle principali aziende quotate in Italia, ma il 3,9% dei direttori esecutivi. Entrambi i valori sono inferiori alle medie europee rispettivamente del 12,9% e 16,8%.

È pur vero che, stando sempre ai dati statistici, dal 2003 al 2012 in Italia il dato delle donne ai vertici delle aziende è passato dal 3% al 11%, ma di questo passo ci vorrebbero circa trent’anni per arrivare alla quota del 33% imposta dall’UE. Si sta tentando di agevolare questo percorso lungo e tortuoso con il sistema delle quote obbligatorie che, secondo me, mettono un cerotto ad un problema che è decisamente più complesso. Come ho già avuto modo di dire, in un articolo precedente, le quote rosa rendono le donne una minoranza etnica da tutelare e sfiorano l’incostituzionalità se ci basiamo sugli articoli 3 e 4 della Costituzione che indicano chiaramente che non esiste alcuna differenza di sesso, religione, razza tra gli individui e che tutti hanno il diritto di partecipare attivamente alla vita economica e politica del paese, ognuno secondo le proprie inclinazioni e capacità. Le quote rosa in Italia sarebbero l’ennesimo specchietto per le allodole, aggirate in modi furbi ma che lasciano l’apparenza intatta.
Secondo il Gender Gap Record 2014, l’Italia si trova al 114° posto per partecipazione femminile nell’economia. Lavora solo la metà delle donne italiane, che sono poco tutelate, sottopagate e fanno più difficilmente carriera. Si stima che una mamma su cinque lasci il proprio posto di lavoro dopo un anno e mezzo dalla nascita dei figli. L’Italia è però penalizzata anche da un altro dato. Riguardo alla partecipazione politica delle donne, la disparità di genere è stata superata solo per il 24%, contro il 65% dell’Islanda o il 61% della Finlandia.
Tuttavia abbiamo un segnale positivo poiché nel 2014 siamo passati al 37esimo posto dal 44esimo del 2013. Sono aumentate infatti le donne in Parlamento e al governo, col pinkwashing però. Il fondatore del World Economic Forum Klaus Schwab sostiene che, se le donne sono più coinvolte nei processi decisionali, prendono decisioni che rispondono di più ai bisogni delle donne. È sacrosanto e giusto continuare a chiedere un Presidente donna, ma il processo di inclusione delle donne nei punti nevralgici della vita economica e politica deve attuarsi a tutti i livelli, perché sarebbe inutile avere una carica rappresentativa, come quella di Capo dello Stato, femminile se poi il nostro paese continua a discriminare in tutti gli altri casi. Lavoriamo per recuperare il gap nella disparità tra i sessi e un Presidente donna arriverà nel modo più naturale possibile, ovvero per competenze e caratura morale.

Marianna Piras

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