Oltre allo scioglimento dei ghiacciai e all’innalzamento delle temperature, nell’Artico i cambiamenti climatici stanno causando danni psicologici alle popolazioni indigene. Si chiama solastalgia, dal latino “solacium” (conforto) e dalla radice greca “algos” (dolore): un neologismo coniato nel 2003 dal filosofo australiano Glenn Albrecht per indicare il sentimento di nostalgia che si prova per un luogo, nonostante vi si continui a risiedere.
A documentare questa profonda ferita psicologica è il The Guardian, che ha raccolto le testimonianze di alcuni Inuit del Canada, denunciando l’impatto mentale, fisico ed emotivo della crisi climatica sulle popolazioni artiche.
Ma in cosa consiste la solastalgia? Si tratta di un forte sentimento di nostalgia di casa, quella che gli inglesi chiamano “homesickness“, che si verifica, però, pur rimanendo a casa. Una casa che gli Inuit del Canada non riconoscono più, una casa ferita dai cambiamenti climatici e profondamente alterata dall’innalzamento delle temperature.
“Non è necessario andarsene per piangere la perdita della propria casa: a volte l’ambiente cambia così rapidamente intorno a noi che quel lutto esiste già“, commenta Ashlee Cunsolo, decana degli studi artici e subartici alla Memorial University di St John’s.
Il termine solastalgia è stato coniato dal filosofo Glenn Albrecht per definire il sentimento di shock in Australia, dopo che le grandi miniere di carbone a cielo aperto nel New South Wales avevano trasformato la Upper Hunter Valley. La gente descriveva il paesaggio che una volta aveva conosciuto così bene come irriconoscibile.
Mentre la solastalgia può essere applicata a chiunque provi dolore legato al clima, Cunsolo afferma che gli indigeni sono particolarmente vulnerabili a causa dei loro profondi legami con le loro terre d’origine e della loro conoscenza pratica quotidiana dell’area locale.
Le popolazioni dell’Artico convivono da sempre con un ambiente ostile e complesso da gestire. Soprattutto durante le stagioni intermedie, quando non c’è abbastanza ghiaccio per usare in sicurezza una motoslitta, ma c’è ancora troppo ghiaccio nell’acqua per muoversi in barca. Con l’accelerarsi dei cambiamenti climatici, le stagioni di mezzo si prolungano, causando notevoli disagi alle popolazioni indigene.
Quella che noi percepiamo come una leggera modifica delle temperature, nelle regioni artiche si manifesta in modo molto concreto e pericoloso. Per esempio, le improvvise fluttuazioni delle precipitazioni e della temperatura impediscono agli Inuit di pianificare le proprie attività quotidiane. Le conseguenze di tali cambiamenti non sono tangibili soltanto a livello pratico, ma hanno anche un risvolto dal punto di vista psicologico.
Gli abitanti delle regioni artiche hanno tendenzialmente un rapporto simbiotico con la propria terra. Di fronte ai cambiamenti repentini della loro casa, vengono dunque sopraffatti da una sensazione di dolore empatica, una nostalgia verso la terra che ricordavano da bambini e che ora non c’è più. Una nostalgia che affligge sempre di più gli abitanti delle regioni artiche, come emerge dal reportage-denuncia del quotidiano britannico.
“Gli Inuit del Canada provano un senso di disagio crescente, che sfocia, nella maggior parte dei casi, in una profonda angoscia“, si legge sul The Guardian. Una sensazione che attraversa il corpo e la mente, ma di cui gli Inuit non riescono a individuare la causa, sentendosi inermi e impotenti di fronte ai cambiamenti che investono la loro terra.
Secondo Cunsolo, la solastalgia potrebbe anche essere “una manifestazione positiva che aiuti gli Inuit a dare forma, a mettere un nome e identificare le cause delle loro preoccupazioni“.
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