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Via Annunziata da via Vicaria Vecchia dista al massimo trecento metri. A piedi ci vogliono meno di cinque minuti per giungere dal primo al secondo punto. Cinque minuti in cui bisogna districarsi fra i vicoletti e, soprattutto nell’ultimo tratto, fra le bancarelle dei venditori ambulanti. Quei venditori ambulanti che, loro malgrado, hanno fatto sì che una bambina di appena dieci anni venisse colpita da un proiettile.
Potrebbe, infatti, essere proprio il racket agli ambulanti, che in quella zona è gestito dal clan Mazzarella, ad aver scatenato in via Annunziata una sparatoria in cui è rimasta gravemente ferita a un piede la bambina. E, così, sembra che a Napoli per percorrere quei trecento metri ci vogliano quasi tredici anni. Tredici anni quanti sono quelli che dividono questo osceno fatto di sangue da uno del tutto analogo.
La sera 27 marzo del 2004, in via Vicaria Vecchia, fu uccisa Annalisa Durante, di appena quattordici anni. Era lì con un gruppetto di amici, fra cui Salvatore Giuliano, giovane rampollo di una delle più importanti famiglie criminali napoletane.
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Il clan Giuliano aveva comandato su Forcella per decenni, ma in quegli anni si stava insediando nel centro storico della città l’Alleanza di Secondigliano e bisognava dimostrare a tutti chi erano i nuovi capi. Quella sera due motorini, cercando di fare più rumore possibile affinché tutti i forcellesi potessero sentire (le esecuzioni di camorra, così come le “stese”, sono spesso dimostrazioni di forza e segnali per la popolazione), si avvicinarono neanche troppo velocemente a quel gruppetto di ragazzi e aprirono il fuoco. Annalisa Durante venne accidentalmente colpita alla testa e in pochi istanti stramazzò a terra, vittima innocente della camorra. Così come si è accasciata a terra questa bambina che si è vista piombare addosso i proiettili della camorra.
All’epoca gridammo di rabbia e di vergogna: etichettammo Napoli come una città troppo pericolosa, tornammo a occuparci di camorra come di un grave emergenza sociale (quale essa è) e qualcuno forse si senti anche in colpa per aver permesso che tutto questo fosse successo. Per qualche tempo.
Tuttavia, dopo i doverosi giorni di lutto, dimenticammo l’indignazione: la camorra tornò a essere un buon argomento per le fiction, nessuno più si senti responsabile di quello che stava o non stava accendo. Forse rimase soltanto la percezione che Napoli è una città troppo pericolosa, anche per andarci in vacanza.
E così si è permesso che in questi tredici anni a una classe criminale, decimata dall’ottimo lavoro della forze di polizia e della Magistratura, se ne sostituisse un’altra ancora più pericolosa. Una classe criminale, che qualcuno ha soprannominato “la paranza dei bambini”, fatta di ragazzini che hanno scatenato una guerra con quel che resta dei clan storici, come i Mazzarella. Una guerra che nel solo 2016 ha fatto più di 40 morti. Una guerra che ha già avuto le sue vittime innocenti, alcune giovanissime (come Gennaro Cesarano, di appena 17 anni, ucciso il 6 settembre del 2015 nel rione Sanità, confinante con Forcella).
Se all’epoca di Annalisa Durante solo qualcuno ritenne di doversi sentir responsabile, oggi – anche perché c’è stata Annalisa Durante – nessuno può sottrarsi a questa colpa. Nessuno può dire di non sapere quale fosse la situazione della criminalità organizzata a Napoli e nessuno può ritenere quello un problema solo dei napoletani. La morte di una bambina, di qualunque parte del mondo essa sia, è responsabilità di tutti.
E anche questa volta, così come per la diciannovenne ferita da un colpo d’arma da fuoco lo scorso 22 marzo nei quartieri Spagnoli, se non è finita come con Annalisa Durante è solo merito del caso, del destino e, per chi crede, di Dio.
I napoletani, di certo, hanno la colpa di essersi sdraiati su un’apparente quanto fragile tregua, come sul versante di un vulcano assopito ma non spento. Tutti gli altri hanno la colpa di non aver mantenuto, oltre il fatto eclatante di cronaca, gli occhi e l’interesse puntati su quel vulcano. La colpa di aver girato lo sguardo dall’altra parte, non ritenendolo un proprio problema, di aver pensato che se non se ne parlava più era perché tutto si era magicamente risolto.
Il ferimento di questa bambina di appena dieci anni dimostra che non era così.