Abbiamo ucciso, stuprato, torturato, umiliato e oppresso. Nel corso della storia, abbiamo agito peggio delle bestie in numerose occasioni. In qualità di uomini, abbiamo deciso di ricordare; di non dimenticare il male che siamo in grado di farci l’un l’altro, lo stesso dolore che oggi più che mai infliggiamo ai nostri fratelli. A Battery Park, sulla punta meridionale di Manhattan, troverete il Memoriale dell’Olocausto. Una toccante raccolta di immagini in bianco e nero, a tutti tristemente nota dai tempi della scuola elementare, precede la sezione che tratta l’argomento di Israele in quanto stato e nazione. A pochi passi dal Memoriale troverete anche il museo dei nativi americani, gli indiani d’America, e con una spolverata di preparazione storica vi accorgerete che i conti non tornano. Perché decidiamo di ricordare solo certi aspetti del terrore? Interi capitoli di storia vengono silenziosamente ritoccati, rivisitati o semplicemente dimenticati a seconda delle necessità del momento.
Il museo degli indiani d’America offre una raccolta di ninnoli, gioielli, strumenti ed utensili che ci presentano il pellerossa come un uomo primitivo, come l’abitante di un mondo lontano appartenente al passato remoto. La collezione prevede colorati capi d’abbigliamento, collanine, pipe da fumo e un’imponente collezione fotografica testimoniante l’unione tra la cultura pellerossa e quella americana: indiani che servono nell’esercito degli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale al Vietnam, indiani che tornano a casa in una bara con la bandiera a stelle e strisce; indiani che giocano a baseball, indiani che si esibiscono in danze rituali.
Camminando tra i corridoi del museo, che occupa il primo piano del gigantesco palazzo della dogana di inizio secolo, non ci si può che sentire un po’ presi in giro. L’incontro tra l’uomo bianco e i nativi americani, dalla Patagonia all’Alaska, è risultato in un numero tra i 50 e 100 milioni di morti. Si parla di una decina di Shoah una dietro l’altra. Molti di loro sono morti a causa delle malattie trasmesse dai primi europei sbarcati nel nuovo mondo, e questi sono probabilmente i più fortunati. Non hanno dovuto assistere alla distruzione del proprio popolo e della propria cultura, subendo morti truculente combattendo contro un nemico invincibile.
In tutto il museo non si parla di morte e distruzione, di numeri e di fatti. L’intera faccenda è presentata come una lezione di preistoria, quando la realtà è che lo sterminio degli indiani d’America è estremamente recente. I figli degli indiani d’America, i pochissimi rimasti, vennero prelevati dalle loro comunità e mandati a vivere con famiglie di bianchi fino agli anni ’60 del secolo scorso. Il governo ha fatto di tutto per “americanizzare” la manciata di nativi rimasti, completando il genocidio iniziato qualche generazione prima.
Attraversando l’America dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico, ci si può imbattere in numerose statue dei responsabili di tale genocidio: i presidenti Andrew Jackson e Ulysses Simpson Grant, primi tra tutti, furono ferventi sostenitori delle guerre d’espansione, conducendo una politica di vero e proprio sterminio. È un po’ come se ci si imbattesse in silenziose statue di Heinrich Himmler e Adolf Hitler.
La storia viene completamente ribaltata quando si parla del generale George Armstrong Custer e del “massacro di Little Bighorn”. Custer è riconosciuto da molti storici come la quintessenza del gangster americano; stupratore incallito, era solitamente accompagnato da un gruppo di squaw indiane, catturate in violente scorribande, per riscaldarsi la notte. George Armstrong Custer è passato alla storia come un valoroso guerriero, morto dopo una coraggiosa battaglia contro una tribù di Sioux selvaggi a Little Bighorn.
La verità è tutt’altra: Custer e i suoi si fecero cogliere con le braghe calate da Toro Seduto e Cavallo Pazzo che inflissero al reggimento una clamorosa sconfitta. A Little Bighorn, i pellerossa vinsero una battaglia contro l’oppressore. Visitando il luogo della battaglia nello stato del Montana, si potranno ammirare diverse lapidi che ricordano il sacrificio di Custer e del suo reggimento di cavalleria. È un po’ come se oggi, visitando il luogo della rivolta del ghetto di Varsavia, ci si imbattesse nelle lapidi che ricordano il valore delle SS.
Tra le colorate collane e mocassini Lakota in mostra al museo fanno capolino timide scritte sul muro, citazioni dei pellerossa appartenenti alle varie tribù (o nazioni) trattate. L’incontro con l’uomo bianco e il conseguente sterminio è presentato come un evento naturale: «il mio popolo si è sciolto come la neve al sole…», «è arrivata su di noi una tempesta!» e via dicendo. È difficile non accorgersi di quanto la storia sia stata adattata all’esigenza del governo americano, uno dei primi che ha avuto successo nel distruggere completamente un intero popolo per poi presentare l’intera faccenda come un qualcosa accaduto in tempi immemori. È rimpiazzare la “storia scomoda” con la “storia utile”, non c’è memoria laddove non serve.
Non c’è un angolo del museo che parli di sterminio, di umiliazione e di distruzione culturale. Non viene trattato l’annientamento dei metodi di sussistenza dei pellerossa e la loro conseguente schiavitù verso l’uomo bianco e i suoi strani modi di vivere. Sono stati uccisi un numero tra i 30 e i 60 milioni di bisonti delle pianure solo in Nord America, una delle fonti principali di cibo e vestiario per le tribù indiane. Questo ha causato il totale soggiogamento dei pochi nativi scampati allo sterminio. Niente di tutto questo viene discusso al museo dei nativi americani di New York.
Amareggiato dalle balle o clamorose “dimenticanze” del museo degli indiani, attraverso la strada per andare al Memorial dell’Olocausto. Il “perché” il 27 gennaio vogliamo ricordare la Shoah mentre il resto dell’anno insabbiamo genocidi immensamente più grandi mi si para davanti immediato. Un muro di fotografie in bianco e nero ricorda alcune vittime dello sterminio dei campi di concentramento: siamo noi. Sono foto di bianchi, di europei, che ci ricordano la vecchia foto della nonna di quando era giovane. Volti sorridenti di altri tempi ma non di un altro mondo.
La sensazione di essere stato esposto sin da bambino ad una sola memoria inizia a impadronirsi di me davanti alle foto degli scheletri viventi dei campi di concentramento. È la solita divisione tra “noi” e “loro”, l’infinita guerra causata dal fatto che ancora oggi non ci riferiamo alla razza umana come un’unica entità. Oggi più che mai siamo in grado di condurre guerre d’invasione e di oppressione, siamo in grado di sottrarre la terra degli altri proprio perché sono “gli altri”.
Nel 2015 trattiamo la storia come uno strumento per pulire la nostra coscienza, più sporca che mai. Se ancora oggi siamo in grado di perpetrare certi crimini contro noi stessi e contro il nostro pianeta, forse il “giorno della memoria che si vuole ricordare”, ovvero la memoria istituzionalizzata, non è stato sufficiente.
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