Totò Riina non è il mandante della strage del Rapido 904 Napoli-Milano che la notte del 23 dicembre 1984 causò la morte di 16 persone e il ferimento di 267. A dirlo è la Corte d’Assise di Firenze che ha prosciolto il boss di Cosa Nostra perché “manca la prova piena che sia colpevole”, come ha spiegato il suo legale, l’avvocato Luca Cianferoni. Nel pomeriggio di martedì il presidente della Corte d’Assise di Firenze, Ettore Nicotra, ha letto la sentenza dopo che in mattinata la pm Angela Pietroiusti aveva invece chiesto l’ergastolo per il capo mafia. Riina, in collegamento video dal carcere di Parma, non ha voluto assistere alla lettura della sentenza.
L’accusa aveva invece indicato nel Boss dei boss il mandante di quella che rimane la prima strage della strategia della tensione di stampo mafioso. Lo scoppio di una bomba nella galleria dell’Appennino, con l’intento di causare il più alto numero di vittime possibile: alla fine furono 16 i morti, oltre 259 i feriti.
Secondo l’accusa, Riina non solo “non poteva non sapere” perché era a capo di Cosa Nostra,ma fu il vero mandante “perché esercitava questo potere”, ha ricordato nella sua arringa finale la pm Pietroiusti. “Solo con la sua autorizzazione è stato fornito l’esplosivo a Calò e solo lui poteva decidere la destinazione dell’esplosivo. Riina è il determinatore, lui dà questo contributo decisivo”.
La tesi della Procura di Firenze coincide con quanto già la Dda di Napoli aveva scoperto nel 2011, quando indicò nel boss mafioso il vero mandate. Prima della strage del Rapido 904 “mai Cosa nostra aveva fatto ricorso ad attentati con modalità terroristiche che non fossero diretti a precisi obiettivi”, ha spiegato la pm. L’attentato era un modo per far pressione sui referenti politici del clan per “incidere sull’esito del maxiprocesso”: il 1984, ricorda ancora la Pietroiusti, è l’anno del pentimento di Tommaso Buscetta, dei mandati di cattura emessi dai giudici Falcone e Borsellino che stanno istruendo il maxiprocesso.
Sulla responsabilità di Riina però non ci sarebbero prove determinanti: da qui la sentenza di assoluzione per “non aver commesso il fatto” in mancanza di elementi certi di colpevolezza, come spiega il difensore del boss mafioso, l’avvocato Cianfulli. “ Non si può consentire che Riina sia il parafulmine dei mali. Invece, da qualche anno a questa parte, Riina è il parafulmine. La formula ‘non poteva non sapere, anzi sapeva’ è da vecchia inquisizione, più che da vecchio rito. A chi fa comodo Riina parafulmine? A chi fa comodo questo processo”, ha commentato dopo la lettura della sentenza.
La strage del Rapido 904
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Prima serata del 23 dicembre 1984, il Rapido 904 sta procedendo la sua corsa: alle 19.08 un’esplosione violentissima scaraventa per aria la carrozza 9 e il resto del treno mentre sta percorrendo la Galleria dell’Appennino, in località Vernio, a una velocità di oltre 150 km/h. La bomba è stata piazzata al centro del treno durante la sosta nella stazione di Santa Maria Novella, nel capoluogo fiorentino. A differenza della strage dell’Italicus, questa volta tutto è stato studiato per massimizzare l’impatto dell’ordigno: la bomba scoppia quando il treno è in una galleria, ad alta velocità, facendo una vera strage. Tutte le porte e i finestrini vanno in frantumi per il violento spostamento d’aria: è una mattanza.
I soccorsi vengono chiamati dal controllore Gian Claudio Bianconcini, anch’egli rimasto ferito con schegge alla testa: la situazione è aggravata dalla posizione del treno, dentro un tunnel, su una linea elettrica danneggiata dallo scoppio. L’esplosione ha fatto saltare i contatti radio, Biancocini ha usato un telefono d’emergenza della galleria e i soccorritori non sanno nulla di quello che è successo. Dopo oltre un’ora, la scoperta della tragedia. Viene usata una motrice diesel per muovere il treno, ma il fumo rischia di intossicare i passeggeri: bisogna usare le bombole, alcune persone vengono trovate sotto choc in cunicoli della galleria. Il coordinamento dei soccorsi però procede spedito, mettendo a frutto quanto indicato nel piano di emergenza stilato dopo la strage a Bologna: alle prime luci dell’alba, quando vengono portati via i morti, inizia a nevicare, spazzando via i resti dei fumi.
I processi
Quello che subito appare chiaro agli investigatori è che siamo di fronte a un attentato di stampo criminale e mafioso. Le indagini confermano: terrorismo, mafia, camorra, P2 sono tutte implicati per mezzi e moventi.
Lo scopo della strage, come disse il pm Pierluigi Vigna nel primo processo a carico di Calò e Cercola nel 1986, era di “distogliere l’attenzione degli apparati istituzionali dalla lotta alle centrali emergenti della criminalità organizzata che in quel tempo subiva la decisiva offensiva di polizia e magistratura per rilanciare l’immagine del terrorismo come l’unico, reale nemico contro il quale occorreva accentrare ogni impegno di lotta dello Stato”.
Mafia e camorra si sono unite, tirando in mezzo anche cellule del terrorismo eversivo, ambienti legati alla P2 e perfino la Banda della Magliana, per colpire la giustizia italiana che, sotto Falcone e Borsellino, sta iniziando a smantellare la Cupola.
Nel 1992 arrivano le condanne definitive per uomini della criminalità organizzata, oltre che per l’artificiere tedesco Friedrich Schaudinn. I boss Pippo Calò, Guido Cercola vengono condannati all’ergastolo per strage; Franco Di Agostino e Alfonso Galeota a 24 e 22 anni; Giulio Pirozzi e Giuseppe Misso, boss della Camorra del Rione Sanità per detenzione di esplosivo. Il giorno della sentenza, dei killer raggiungono l’auto sui cui viaggiano Pirozzi, Galeota e Assunta Sarno, moglie di Misso: vengono uccisi uccisi Galeota e la Sarno, Pirozzi si salva perché finge di essere morto. Cercola si suicida nel carcere di Sulmona nel 2005.
Nel 2011, la Dda di Napoli indica in Totò Riina il mandante, colui che ha organizzato tutto per rispondere al maxi processo. Non si trovano prove sufficienti: il processo contro il capomafia si chiude con un’assoluzione.
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