E’ normale cambiare abitudini. Nel corso degli anni, grazie all’evoluzione tecnologica, tantissime cose considerate “normali” decenni fa sono finite nel dimenticatoio, mentre pratiche che ora usiamo tutti i giorni non erano minimamente pensabili solo nel 1990. Pensiamo a come è cambiata la nostra vita con l’avvento del computer, di internet, o dello smartphone. Chi avrebbe mai detto nel 2000 che una quindicina di anni dopo si sarebbe potuto fare la spesa via cellulare? Assolutamente nessuno. Ma è così.
Un’altra cosa che è cambiata radicalmente nel corso degli anni è la musica. Sia naturalmente come generi, sia come i modi di fruirla. Senza andare troppo indietro con gli anni e parlare di grammofoni, siamo passati dai vinili con i 78/45/33 giri, poi le musicassette, i cd, le copie masterizzate, i dischi pirata, Napster, mp3, download illegali, fino all’ultima frontiera, quello dello streaming musicale legale. Già, perché quella che sembrava solo una moda passeggera si è trasformata nell’ennesima rivoluzione dell’industria della musica, che sta colpendo certamente gli artisti e le case discografiche, ma che sta cambiando anche il nostro modo di ascoltare e fruire la musica. Parole come iTunes e Spotify, che prima venivano citate solo da una stretta nicchia di persone e addetti ai lavori, stanno entrando sempre di più nel nostro vocabolario comune, modificando forse per sempre la nostra voglia di ascoltare i nostri cantanti preferiti. Cosa sta succedendo? Perché questa cosa? Vediamo di capire meglio il fenomeno dello streaming musicale e come agisce nella nostra vita quotidiana.
Insieme a Netflix, Spotify è il nuovo grande boss dei servizi streaming on demand. Se Netflix si occupa di video, film e serie Tv, Spotify è il must have per tutti gli appassionati di musica. L’azienda nasce nel 2006 in Svezia, per poi propagarsi lentamente in tutto il mondo. Ora può vantare qualcosa come 71 milioni di utenti paganti e più di 88 milioni di utenti iscritti gratis, per un totale di 159 milioni di persone abbonate. Una folla inaudita.
Il funzionamento è semplice: ci si iscrive e si può accedere a quasi tutta la discografia mondiale. Tramite il proprio device, che può essere telefono, pc, tablet, playstation, perfino in alcune auto è inserito, si può ascoltare qualsiasi canzone o album presente nella applicazione. Contando che il servizio ha fatto accordi con le più grandi major discografiche, ma che permette anche a artisti indipendenti di condividere la propria musica, c’è praticamente tutto. E’ un servizio che naturalmente ha bisogno di rete per funzionare e, in breve, ci sono due utenti differenti: l’utente gratuito può ascoltare tutta la musica che vuole in cambio di un po’ di pubblicità, mentre l’utente premium non ha spot pubblicitari e può anche scaricare la musica per sentirsela offline senza utilizzare il traffico dati. Non è possibile però scaricare una canzone, magari in mp3, per poterla avere su chiavetta o sul lettore portatile: tutta la musica passa sempre e solo dalla app di Spotify.
Naturalmente non esiste solo Spotify come servizio: iTunes, Google Music, Tidal, anche Youtube da un certo punto di vista, sono piattaforme che fanno la stessa identica cosa. Soprattutto in maniera legale. Questo ha portato al crollo della musica “fisica” (quindi cd) per arrivare al trionfo del digitale.
Grazie a connessioni sempre più veloci e ad un mondo ancor più tecnologico, i file audio hanno portato alla dematerializzazione di canzoni, ma anche nuove idee artistiche e commerciali. Il panorama, dunque, muta con estrema velocità e cambia radicalmente anche il modo in cui la musica viene consumata e concepita. Le tracce audio non sono più acquistate e possedute, ma semplicemente “affittate”, noleggiate, fruite e poi rimangono li, in una sorta di nuvola condivisa a tutti. I collezionisti di musica fisica sono ormai una nicchia.
Che sia chiaro: fare una applicazione con lo scopo di fornire musica illimitata sulla base di un piccolo abbonamento mensile, è una delle migliori intuizioni di business degli ultimi anni, una idea assolutamente geniale. Siamo passati prima dal comprare qualche cd all’anno, poi allo scaricare album senza nessun freno e senza farci troppe domande sulle conseguenze delle nostre azioni di pirateria illegale, ad avere una libreria musicale sconfinata, nella quale poter trovare indifferentemente gli ultimi successi delle hit mondiali o i grandi classici della musica di tutti i tempi. Il tutto con pochi euro e in modo assolutamente legale. FANTASTICO.
Questo però porta a cambiamenti. Prima di tutto non c’è più possesso: non abbiamo più una nostra musica, ma una po’ di musica. Tutte le canzoni del mondo e di tutti i tempi ci sembrano nostre, ma rimangono in condivisione con altre milioni di persone, noi le utilizziamo solo il tempo che ci serve. Non compriamo più la musica, paghiamo solo il servizio.
E poi, soprattutto, diminuisce la “qualità” con cui ascoltiamo questa musica: anni fa si risparmiava per comprarsi il vinile o il disco nuovo di qualche cantante, ascoltandolo milioni di volte, sfogliando il libretto fino ad imparare ogni singola sillaba a memoria, arrivando a “bruciare” il cd per i troppi ascolti. Comprare un album era un evento, avere la dispensa dei cd da mostrare agli amici era una sorta di rito, parlare coi colleghi del nuovo lavoro di qualche artista era una prassi consolidata. Ora la musica fatica ad uscire dal nostro telefono: ci si scarica centinaia di canzoni in un solo clic in pochi secondi, per poi ascoltarne due o tre. Abbiamo playlist da migliaia di canzoni, spesso scaricate solo per moda o per sentito dire, e magari mai ascoltate o se ascoltate dimenticate poco dopo. Fine, tutto molto asettico, non emozionale, quasi triste. Pur avendo tutta la musica che si vuole a portata di dito, si ha un rapporto più impersonale e meno diretto con essa. La musica non è più una passione, diventa solo passatempo e sottofondo.
Tutto ciò quindi causa un cambiamento fondamentale nel modo in cui si percepisce il mondo musicale. Insieme al modo di fruire le tracce audio si sta modificando anche la musica in sé: non abbiamo più tempo, ne voglia, di ascoltare una canzone sconosciuta per più di tre minuti, in pochi secondi dobbiamo capire se ci piace o no, se no si “skippa” a quella dopo. Questo porta anche gli artisti a fare canzoni differenti: sono sparite le intro, si va dritti al sodo, al momento seducente della traccia, in modo da non fare andare via l’utente. Non è solo una questione di gusti, è un segno dei tempi che cambiano: nella vita frenetica di oggi, sempre di corsa, c’è poco tempo pure per ascoltare la musica, talmente poco che proprio non vale la pena sprecarlo per un pezzo brutto. Ma è anche dovuto al fatto che Spotify paga agli artisti la loro percentuale dopo 30 secondi di ascolto di una canzone, non prima. Quindi via subito col ritornello orecchiabile.
Ci siamo musicalmente semplificati e alleggeriti. Siamo meno attenti alla musica e all’uso che ne facciamo. Da passione è diventata genere di compagnia, ci fa sentire meno depressi e meno soli. Se prima si comprava un disco, ci si sedeva in poltrona e lo si ascoltava tutto di un fiato, anche con una certa concentrazione, oggi lo si fa distratti da mille altri stimoli. Abbiamo la fortuna di avere un qualcosa che trent’anni fa non lo si poteva neanche sognare, ma non lo sfruttiamo appieno. Vogliamo tutto lo scibile musicale, subito e a portata di mano, finisce però che ascoltiamo solo due o tre cose. Un vero peccato.
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