La Corte di Cassazione ha confermato la condanna a 4 anni per un ispettore di Polizia che nel 2013 stuprò una 18enne in una stanza del Commissariato San Basilio a Roma. Secondo i giudici, la giovane, fermata insieme al fidanzatino e tre amici dopo un controllo antidroga con pochi grammi di hashish in macchina, non avrebbe dato il consenso, come invece sostenuto dall’agente. Nel confermare la detenzione già inflitta dalla Corte d’Appello di Roma nel 2016, i togati hanno infatti riconosciuto l’aggravante di aver abusato della vittima “nell’esercizio delle sue funzioni di commissario ed all’interno del Commissariato dove lavorava”.
Nella sua ricostruzione al processo di secondo grado, Selva aveva respinto ogni accusa e aveva sostenuto che la ragazza era consenziente e che lui non l’avrebbe costretta ad avere un rapporto sessuale. Arrestato nell’ottobre 2013, mesi dopo la violenza, quando la ragazzina, figlia di un carabiniere, denunciò la violenza, ora l’ispettore dovrà scontare la pena di 4 anni comminata in Appello.
Nella sentenza, depositata dai giudici della Suprema Corte e riportata dall’Ansa, si legge che il “consenso presunto” è “certamente da escludersi nell’ipotesi di abuso sessuale da parte di un ispettore di polizia nell’esercizio delle sue funzioni nei confronti di una ragazza fermata perché a bordo di un’autovettura contenente sostanza stupefacente e dunque in evidente posizione se non di soggezione comunque di timore tale da condizionarne le reazioni”.
In pratica, la 18enne, quando il poliziotto le abbassò i pantaloni e la violentò, non oppose resistenza per non aggravare la sua posizione e quella dei suoi quattro amici con una denuncia per droga: per i giudici, l’ispettore usò la sua posizione di “forza”, mettendo in soggezione la giovane che temeva ripercussioni per un suo no.
“Con coerente e logica motivazione”, i giudici di merito “hanno ritenuto irrilevante il fatto che l’imputato non avesse mai in concreto correlato l’acquiescenza della ragazza alla posizione dei suoi amici” affermando che era “la stessa posizione autoritativa derivante dal pubblico ufficio ricoperto dall’imputato ad aver ingenerato nella vittima, in condizioni di naturale soggezione e timore all’interno di un Commissariato nell’attesa di conoscere le sorti dei ragazzi che erano stati fermati con lei in flagranza di un possibile illecito, la costrizione a subire il compimento degli atti sessuali”. Respinta anche la richiesta della difesa del poliziotto di ottenere l’attenuante della violenza sessuale di “minore gravità”.
Nel confermare la condanna invece, i giudici della Cassazione sottolineano come la sentenza d’appello “dà conto con puntuale e coerente motivazione della valenza particolarmente negativa della condotta posta in essere dall’imputato in relazione sia all’incisività dell’atto sessuale, sia all’abuso di autorità derivante dalla funzione ricoperta dall’imputato, circostanze entrambe volte ad escludere una attenuata compressione della libertà sessuale della vittima”.
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