Martedì e mercoledì, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha presentato ai parlamentari, prima ai senatori, poi ai deputati, il programma del governo in merito alla materia del suo ministero. Tra abuso d’ufficio che deve essere riformato, la separazione delle carriere per i magistrati – argomento da sempre molto caro a Silvio Berlusconi, e anche alla P2 -, il Guardasigilli si è scagliato anche contro le intercettazioni. E quindi apriti cielo.
Il discorso dell’esponente di Fratelli d’Italia, per cui la presidentessa del Consiglio, Giorgia Meloni, ha lottato contro gli alleati per averlo nella squadra dell’esecutivo, parte da un presupposto semplice: le intromissioni nella vita privata degli indagati, e quindi anche di quelli con cui comunica, sono necessarie nel corso delle indagini, ma dovrebbero avere delle regole diverse, perché molto spesso diventano di dominio pubblico e, per eccesso di giustizialismo, quegli stessi indagati diventano improvvisamente colpevoli, e senza nessuna sentenza di un giudice.
Lo strumento delle intercettazioni, da che è mondo, è uno dei mezzi di ricerca delle prove più delicati che esistano. Innanzitutto, in base agli articoli 266 e 267 del codice di procedura penale, possono essere disposte solo in determinate fattispecie di reato e devono essere richieste dal pubblico ministero (il pm) al giudice per le indagini preliminari (il gip), che può anche non autorizzarle.
Nel caso in cui la richiesta venisse accordata, hanno durata limitata, e questo perché c’è un altro articolo, anche della Costituzione, che tutela la riservatezza della comunicazione delle persone – è l’articolo 15 –, la cui limitazione, appunto, “può avvenire solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge“. C’è quindi una riserva di legge e di giurisdizione, come c’è anche per l’articolo 13 e il 14, che tutelano rispettivamente la libertà personale degli individui e quella di domicilio – per cui per metterci in carcere, per dirla in soldoni, o per fare una perquisizione in casa nostra, ci devono essere delle ipotesi di reato, gravi.
La stessa cosa, dicevamo, vale anche quando gli inquirenti devono mettere l’orecchio, a volte anche l’occhio, nelle nostre conversazioni. Eppure, le intercettazioni sono da sempre un campo minato in cui muoversi, perché da mezzo per la ricerca delle prove diventano il pretesto per giudicare una persona colpevole o innocente prima di una sentenza definitiva di condanna, andando contro altri articoli costituzionali che invece rendono l’Italia un Paese assolutamente garantista.
Ecco, sulle intercettazioni, centrodestra e centrosinistra, i legislatori in toto cercano di mettere mano, anche perché costano davvero tanto, almeno il 2% del Pil ha detto Cardio Nordio alle commissioni Giustizia di Senato e Camera. E quindi, anche il governo di Giorgia Meloni, nella persona del Guardasigilli, vorrebbe riformare l’istituto, non perché non utile ai fini di un’indagine giudiziaria, ma perché, appunto, molto spesso vengono divulgate prima di quando sia lecito, e ancora più spesso portano a galla dettagli di una vita privata che, come tale, dovrebbe rimanere. Anche quella di personaggi pubblici, siano essi vip, siano essi politici. Non sempre, tra l’altro, sono questi personaggi a finire nel mirino della giustizia, e sono tanti gli esempi in questo senso, ne sa qualcosa anche l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Al di là di questa considerazione, la proposta del ministro della Giustizia punta non a limitarle – nonostante abbia anche parlato del fatto che se ne fa un uso smodato -, ma vorrebbe che venissero stralciate, e quindi non finissero tra gli atti giudiziari, ergo pubbliche e pubblicabili, tutte quelle conversazioni captate che poco c’entrano con l’indagine per cui sono state disposte e che spesso i suoi ex colleghi, i magistrati, tendono a divulgare per colpire questo o quell’altro.
L’idea, per altro, non è così nuova e non è neanche così poco dibattuta. Anche nella riforma di Andrea Orlando del 2017, approvata dai parlamentari che appoggiavano l’esecutivo di Matteo Renzi, in cui il deputato del Partito democratico era il titolare del dicastero di via Arenula, si andava verso quella direzione. Perché anche cinque anni fa ci si rendeva conto che un problema c’era. Peccato che per l’entrata in vigore si sia dovuto aspettare al primo settembre 2020, e in parte le cose sono state cambiate in un ulteriore decreto legge del 2019.
Quando si tocca lo strumento delle intercettazioni – in questo caso, al momento, si tratta solo del programma che vorrebbe portare a termine il governo – ci si deve scontrare con molte critiche. Dei magistrati, delle opposizioni, e anche dei giornalisti. Perché a essere più colpiti, la maggior parte delle volte, sono loro. Sono loro che non possono più pubblicare il contenuto di conversazioni private in nome di un articolo 21 della Costituzione che tutela, invece, la libera manifestazione del proprio pensiero, e senza limiti di sorta, se non quello del buon senso.
Ecco, il buon senso. Strumentalizzare, estrapolare, rendere più vive delle parole probabilmente non rientra in questa casistica. Ma neanche la proposta del Guardasigilli è uguale e precisa a quella del quarto esecutivo di Silvio Berlusconi, il disegno di legge di Angelino Alfano, perché quello sì voleva mettere un bavaglio all’informazione.
Ma forse non è neanche quello il problema, non è il mettere a tacere i giornalisti. Perché il tutto è stato visto come un attacco alla magistratura, in pieno stile Propaganda Due, alla maniera di Licio Gelli. E fa a pugni con quello che ha detto anche Sergio Mattarella, lo stesso presidente della Repubblica che si rende conto che così non si può andare avanti.
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