Quando si parla di Terra dei fuochi, la memoria di tutti va alla Campania, all’agro aversano in particolare. E cioè a quella zona che si estende fra il confine di Napoli e il confine di Caserta, dove i Casalesi hanno sotterrato illegalmente quintali e quintali di rifiuti. Spesso anche tossici. In realtà, in Italia, ci sono centinaia di terre dei fuochi. Più o meno grandi, più o meno inquinate, ma tutte estremamente pericolose. E forse i Casalesi non hanno inventato proprio nulla, neanche questo micidiale business. «Sapevo – ha rivelato, prima di morire, il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone alla giornalista Barbara Giangravè – che tutti i clan, anche i mafiosi, facevano quel traffico».
Solo che il traffico di rifiuti illeciti sotterrati nel sottosuolo siciliano non è mai diventato un caso nazionale: è rimasto sempre e soltanto sulle pagine della cronaca locale dei giornali regionali. Di quelli meno collusi, almeno. Così come non è mai approdata a niente, in termini giudiziari, l’inchiesta condotta dalla Giangravè, che però non si è arresa e oggi ha deciso di pubblicare il libro “Inerti” in cui, seppur in forma romanzata, svela tutto sulla terra dei fuochi siciliana. «Perché – dice – spero che un giorno qualche mafioso, pentito, riveli i luoghi a oggi sconosciuti, così come le relative responsabilità».
La protagonista del tuo romanzo, Gioia, avvia un’indagine sul traffico di rifiuti illeciti in Sicilia. Cosa scopre?
«In realtà, Gioia non scopre nulla. Mi spiego meglio. Raccoglie le testimonianze di gente malata di cancro, ascolta le ricostruzioni verosimili dei fatti, si domanda per prima come sia possibile che, in un Comune lontano dalle industrie, ci sia tutta quella gente affetta da tumore e, con l’aiuto di pochi e fidati amici, cerca di raccogliere dati e prove del traffico illecito di rifiuti. Gioia e i suoi amici raccolgono 100 firme, fanno approdare la questione in Consiglio Comunale, consegnano una denuncia molto circostanziata ma contro ignoti nelle mani di un magistrato. La Procura sequestra dei terreni, invia delle trivelle per fare i carotaggi del suolo ma, alla fine, beh… non ti voglio svelare cosa succede».
Insomma una vera e propria terra dei fuochi siciliana. Quanto c’è di vero in questa ricostruzione?
«Di vero ci sono i racconti di alcuni abitanti di tre diverse province siciliane. Il libro è ambientato nell’isola perché in Sicilia anch’io, come Gioia, ho avviato un’indagine che, purtroppo, non è approdata a niente in termini giudiziari. Con il tempo mi sono resa conto, però, che questa storia poteva benissimo essere ambientata in qualsiasi parte d’Italia. Disgraziatamente».
Il romanzo, in realtà, nasce dal materiale che hai raccolto per un’inchiesta sugli intombamenti in Sicilia. Perché, secondo te, la situazione siciliana è sconosciuta rispetto a quella campana?
«La situazione siciliana non è affatto sconosciuta a livello mediatico rispetto a quella campana. La differenza sta nel fatto che quella siciliana continua a essere circoscritta a una dimensione regionale rispetto a quella campana. Se cerchi dei riferimenti giornalistici alla “terra dei fuochi siciliana”, troverai diversi articoli, la maggior parte dei quali, però, pubblicati da testate siciliane. Il che, tragicamente, non mi stupisce, se pensi che uno dei sindaci di Palermo, negli anni ’80, cioè trent’anni fa, dichiarava di non avere mai visto la mafia al Comune, nonostante da Palazzo delle Aquile fossero già passati sia Salvo Lima che Vito Ciancimino».
Nella tua inchiesta sei stata incoraggiata dalle dichiarazioni che del collaboratore di giustizia Carmine Schiavone, che hai intervistato prima che morisse. Cosa ti rivelò?
«Quello che Carmine Schiavone mi ha detto è contenuto per intero in una postfazione pubblicata alla fine del romanzo. Cito testualmente: “Sapevo che tutti i clan, anche i mafiosi, facevano quel traffico all’epoca. Sapevo tramite amici mafiosi che anche lì stavano facendo questo schifo di cose. Ma noi eravamo in guerra con loro: eravamo vincenti in Campania e perdenti in Sicilia. Non sapevamo i particolari ma sapevamo che loro lo facevano addirittura da prima di noi. Mentre noi abbiamo cominciato alla fine degli anni ’80, loro lo facevano da un decennio. Già negli anni ’70 loro erano immischiati in questo business: dicevano che facevano affari con immondizia tossica e altro. Lo facevano sia attraverso navi che arrivavano, sia via terra. Era tutta una collusione tra affiliati, servizi segreti, Stato, mafia e immondizia. Dopo che inondarono il nord, inondarono pure il sud attraverso le varie organizzazioni mafiose. Quindi non solo la Campania, la Calabria, parte della Puglia, la Basilicata, ma anche la Sicilia. Le cave non si riempivano mai. Nella nostra zona, come in tutte le altre zone, furono utilizzati i lavori per realizzare grandi opere pubbliche (per nascondere i rifiuti, n.d.a.). Io stavo nel carcere di Trapani negli anni 1984 e 1985 con Mariano Agate e Pippo Bono, che mi dicevano che tenevano il business dell’immondizia. Fuori me lo avevano detto Buscetta (che era amico mio da tanti anni), Drago, Di Matteo, Marchese. Sapevo che erano cose veritiere: non mi potevano raccontare chiacchiere”».
Con questo libro speri di portare all’attenzione dei media e quindi dell’opinione pubblica l’emergenza ambientale siciliana?
«Con questo libro spero che se effettivamente Cosa Nostra ha iniziato a sotterrare rifiuti tossici in Sicilia dieci anni prima rispetto alla Camorra in Campania, magari un giorno qualche mafioso, pentito, farà ciò che ha fatto l’ex camorrista: rivelerà i luoghi a oggi sconosciuti, così come le relative ed eventuali responsabilità».
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