La giuria ha deciso: Tesla dovrà risarcire il suo ex dipendente, che ha denunciato i suoi ex colleghi di averlo discriminato, nel periodo in cui lavorava all’interno dell’azienda, a causa delle sua origini. L’uomo in questione, infatti, è afroamericano e ha affermato a gran voce di essere stato vittima di razzismo all’interno della fabbrica di Silicon Valley.
La Tesla dovrà sborsare 3,2 milioni di dollari. L’accusa è chiarissima: non ha tutelato l’ex dipendente vittima di razzismo, che denunciò il tutto già nel 2017. Quello che fa strano è la somma disposta dal giudice: inizialmente – circa un anno e mezzo fa – ammontava a 137 milioni di dollari, quindi appare chiarissimo quanto si sia sgonfiata nel frattempo.
Cosa saranno mai 3,2 milioni di dollari per Tesla (che quest’anno dovrebbe fatturare circa 100 miliardi, nel 2022 ne ha fatturati 81,46 e potremmo continuare all’infinito)? Forse nulla, forse tanti comunque tutto sommato, non per la cifra in sé, ma per il suo significato. Questa, infatti, è la somma che dovrà elargire come risarcimento danni a un ex dipendente.
Ma andiamo con ordine, perché la vicenda è alquanto complessa, intricata, particolare e merita una spiegazione dettagliata (per quanto possibile, siccome le informazioni trapelate e “consegnate” alla stampa sono sicuramente una piccolissima percentuale della realtà).
Tesla – che un tempo si chiamava Tesla Motors e prende il nome dal noto inventore Nikola Tesla – è oggi specializzata nella produzione di auto elettriche, pannelli fotovoltaici e sistemi di stoccaggio energetico, ma questo lo sappiamo tutti. Il suo obiettivo, infatti, non è quello di produrre veicoli elettrici e basta (come molti credono): è “accelerare la transizione del mondo all’utilizzo di fonti di energia rinnovabili”. Ovviamente questo include anche la produzione dei succitati veicoli, ma non potrebbe mai fermarsi a questo, che ne è solo una piccola parte.
Dal 2003, anno della sua fondazione, di cose ne sono successe. Erroneamente si pensa comunemente che il suo creatore sia stato Elon Musk, uno degli uomini più ricchi del Pianeta oggi, 20 anni dopo: non è così. A mettere i primi tasselli verso questo sviluppo sostenibile furono all’epoca Martin Eberhard e Marc Tarpenning. Musk entrò in azienda solo l’anno successivo, in qualità però di investitore principale. Già cofondatore di cofondatore di PayPal, divenne presidente di commissione e iniziò così a gestire le prime sfide dell’azienda. Solo cinque anni dopo la sua creazione fu nominato CEO e da allora la sua storia la conosciamo tutti: iniziò a crescere a dismisura, grazie soprattutto a esperti mondiali di informatica e sistemi di calcolo, a ingegneri elettrici ed elettronici e così via, divenne famosissima in tutto il mondo, iniziò pian piano anche a rendere noti i suoi brevetti e così via.
Oggi lo stesso Elon sostiene di vedere Tesla come una società tecnologica e una casa automobilistica indipendente, che dovrà produrre auto elettriche a prezzi accessibili, così da diventare appetibile anche per il consumatore medio e da rendere possibile anche e lui avere a disposizione fonti rinnovabili e non inquinanti.
Basti pensare che nel 2015 – quindi circa otto anni fa – Forbes elesse Tesla azienda più innovativa al mondo. E già questo la dice lunga. Solo un anno e mezzo fa, poi, l’azienda ha raggiunto una capitalizzazione azionaria di 1000 miliardi di dollari: il merito – ammesso che si possa parlare di merito – è di Hertz e del suo maxi ordine di 100mila Model3, che all’epoca costituivano un unicum per una casa automobilistica.
Arriviamo a oggi: la Tesla continua incessantemente a correre, così da riuscire a restare sempre in vetta alla classifica di produttrice di fonti di energia rinnovabile, eppure questo non la rende affatto esente dai guai, anzi. Un ex dipendente della fabbrica di Silicon Valley, infatti, ha fatto causa all’azienda: pare che non lo abbia tutelato quando è stato vittima di comportamenti razzisti.
La giuria di San Francisco ha emesso il suo verdetto: Tesla è colpevole e dovrà risarcire l’ex dipendente. Si chiama Owen Diaz, è – anzi, era dovremmo dire – un’ascensorista afroamericano che lavorava presso lo stabilimento di Fremont, in California. Lì è arrivato nel giugno del 2015 ed è rimasto per poco più di un anno, durante il quale, a detta sua, sarebbe stato ripetutamente vittima di abusi razzisti e si sarebbe trovato a lavorare in un ambiente ostile a causa delle sue origini (almeno questo è emerso dalla sentenza).
Diaz ha deciso di percorrere le vie legali solo nel 2017, ma nel frattempo, complice anche la presenza del figlio all’interno della stessa azienda, ha potuto notare quanto in effetti tutti i dipendenti afroamericani fossero spesso bersaglio di epiteti razzisti, di discriminazioni, di gesti di disprezzo. Ma il problema non è neanche solo questo: a quanto pare, infatti, nonostante le denunce mosse ai supervisori, nessuno prese alcun provvedimento in quel periodo.
Oggi, a quanto pare, un vicepresidente delle risorse umane avrebbe minimizzato il tutto, limitandosi a dire semplicemente che Tesla “non era perfetta” quando Diaz lavorava lì. L’unico dato positivo è che nel frattempo – sono passati comunque sette anni circa – pare che ci siano stati non pochi miglioramenti in questo senso e che quindi oggi la situazione dei dipendenti sia decisamente migliore.
Quello che sembra strano è l’ammontare del suo risarcimento. Ci spieghiamo meglio: inizialmente – circa un anno e mezzo fa – il giudice aveva disposto che Tesla avrebbe dovuto pagare 137 milioni di dollari, cifra drasticamente ridotta adesso. Tra 137 a 3 milioni c’è una bella differenza chiaramente, non c’è neanche bisogno di specificarlo.
Il motivo di questo cambio di rotta così evidente, almeno per adesso, non ci è dato saperlo. La cosa più importante, però, è sapere che la giuria abbia dato ragione a Diaz: il fatto che azioni e parole razziste vengano punite – a prescindere dall’ammontare del risarcimento – potrebbe scoraggiare eventuali iniziative simili future. E, si sa, è sempre meglio prevenire che curare.
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